"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

lunedì 27 febbraio 2012

Assaggi di romanzi inediti - da IL VOLO INTERROTTO DEGLI ANGELI: Gabriele costretto a nascondersi


gabriele

Da quando sono venuto a nascondermi qui ho perso il conto dei giorni, smarrito il senso del tempo. Questa pensioncina cadente. A pochi passi dal Cimitero Monumentale. Questo rifugio per clandestini e tossici e topi. Io qui. Seppellito nell’odore di piscio, di scalogno e di polvere. Una stanzetta scrostata come nei più disperati racconti di John Fante e Bukowski. Con l’intonaco a chiazze. Il soffitto nero di muffa e di crepe. Avanzi di tappezzeria consunta e sudicia, venuta via negli angoli. Ogni tanto uno scarafaggio in ricognizione. A disagio pure lui. Ragni così polposi che ti fanno paura anche dopo averli spatasciati. Gente che litiga e scopa dietro ogni muro. A tutte le ore. La serratura andata. E l’unica sedia per barricare la porta. (Coi miei duemila in verdoni da cento accartocciati nelle calze e il portatile sotto il materasso sono un miliardario, qua dentro). Un lavandino mezzo rotto in camera e il cesso comune in fondo al corridoio. Pisciare sempre nel lavandino. Ovvio. Risoluzione già adottata da altri, ci sono tracce che parlano chiaro. E un solo oggetto d’arte a ravvivare l’ambiente, unico tocco personale all’arredamento, solitaria presenza affettiva a legarmi a qualcosa là fuori, in verità non consolandomi ma facendomi sentire ancora più male, ogni giorno d’un passo più vicino al suicidio: il gatto di Mattia appeso sopra il letto. Al posto di un’antipatica madonna del tutto fuori luogo. Le ho fatto un favore a levarla da lì. Che cosa ci stai a fare? A guardare i disgraziati in preda alla depressione che pisciano nel lavandino rotto? In attesa di non avere più i soldi nemmeno per pagare la pigione di questa topaia? Senza la possibilità di muovere un dito per loro, perché semplicemente, diciamocelo, semplicemente tu non esisti? Ma vattene, va’. Vai almeno a piangere sangue per qualcuno che crede ancora alle favole. O vai a guarire un bambino al Misericordia, tanto per cambiare, invece di apparire agli stronzi disonesti e ai fanatici con le stimmate. Così ci ho messo il gatto senza coda. Che avevo fatto incorniciare.
E nessuno in carne e ossa con cui scambiare due parole. Mai avuto nessuno, prima e dopo Mattia. La mamma che se ne andò così presto. Mio padre fuori di testa, in quei pochi anni prima di raggiungerla.
Cosa c’è papà?
Non rompere. Sto parlando con la stufa.
Ah. Cercate almeno di non litigare.

La sola distrazione rimastami, anche se per me è un lavoro, è il poker online. Ci potresti scrivere un libro, solo coi nicknames che si sceglie certa gente. Mi è capitato di sedermi al tavolo con avversari che si chiamavano ciccione, balubone, culone, jackfogna, smemorato, sciancatello, ammazzagallittu, il merda, guapopapo, mbriaco, flautomolle, megaciuccione, melociucci, bocio, baffotomettaret, stoga220, bigolo, e poi peppopaz, vaffanfull, baiacagai, totòriina, scomunicat, olatitant, osicario, miononno, latumamma, e waschintoon, cavagliere, puzzetta, subuteo, sukaminkiapuppu, frullapassere, stracciamutande, e poi ancora pompetto, sperminetor, sbrodolino, scopatore, ratzinger, borbonauta, crocifisso, mortaccio, natustunatu, nunvincomai, mezzopolmone, scurnacchiat, disgraziat, ebete, farabbutto, cornogobbo, kitemmuertu, fessacchiotto, vaintecasen, mozzamani e sticazz. Più tutto uno zoo di procione, mulacchione, giaguaro, coguaro, supercammello, supertopo, topino, topolinonero e topodue, e pitone, struzzubellu, lince, tigro, gufo, tricheco, cercopiteco, civetta, gallina, lupone, cinghial8, yellowpecora, porco, ringhio, marcodobermann, vacco, pinguino, tacchinella, faraona, fagianotta, girino, pipistrello, bisonte, talpone, cornabobò…
L’effetto comico è accentuato dal fatto che certi server, in uno spazio separato dal tavolo di gioco – solitamente una colonnina laterale – verbalizzano le mani annotando di volta in volta il nome del virtuale mazziere (c’è un dealer fittizio, quasi sempre un ologramma tettuto, ma per mazziere designato s’intende colui che a turno sta prima di buio e controbuio), del vincitore della mano e dei giocatori via via eliminati, per cui può capitarti di leggere frasi del tipo “il mazziere è smemorato”, “il mazziere è mbriaco”, oppure “il vincitore è porco”, “il vincitore è crocifisso”… Poi ci sono le chat, dove i giocatori più che altro si insultano, dicendosene di tutti i colori… Ieri notte, prima ancora dell’inizio del torneo, a carte non distribuite (quando al massimo taluni azzardano gentili saluti o auguri menarogna quasi mai ricambiati) uno, mi pare un certo svizero, con una zeta sola, se ne viene fuori, senza che si possa capire con chi ce l’abbia (forse una presentazione autocritica di se stesso) con un enigmatico: “in ogni tavolo ce da sta nu strunz”.
Poi si parte col torneo, e due animali di cui non ricordo il nome vanno subito all in. Il primo ha coppia di 2. Il secondo coppia di 8. Al flop esce subito il terzo 8. La coppia di 2 pare spacciata. Senonché uno dei 2 è di picche, e spuntano fuori altre quattro picche! Allora il vincitore tenta di consolare l’avversario malamente eliminato, e sotto gli occhi di tutti appare la coraggiosa e forse doverosa scritta: “scusa ho sculato”.
Pochi secondi e arriva, in due folate, la risposta di quell’altro Lord di Oxford in stampatello maiuscolo: “MA VAFANCUL A MAMMMT”.
E: “TU E ST’EUROBET D MERDDDDD”.
Notare che non eravamo su eurobet! Caratteristica comune di questi semianalfabeti dell’insulto è non distinguere un server dall’altro: paradossali trogloditi incredibilmente forniti di pc, chiavetta e card ricaricabile, nemmeno sanno dove cavolo stanno giocando, forse perché, avendo del denaro sporco da riciclare, avranno ognuno venti conti cifrati diversi… E però, non è un bell’enigma antropologico, non è la misura del tempo assurdo in cui viviamo, immaginarsi certe pelosissime scimmie alle prese con computer portatile, connessione internet e poker online? Come diavolo faranno a digitare un pin mentre si arrampicano sugli alberi o gironzolano per liane? E a ricordarselo? Se lo faranno tatuare sulla coda? Boh!!
Il bello è che in teoria ci sarebbero dispositivi spietati che vegliano contro il turpiloquio: io preferisco giocare e tacere, come tutti i veri Giocatori, ma una volta che uno mi tirò fuori dalla grazia di dio e volevo dargli del pirla, il sistema me l’ha impedito e mi ha pure sgridato. Ma le proscimmie se ne fanno beffe, e per aggirarlo s’insultano e t’insultano facendo ricorso ad abbreviazioni, sgrammaticature volute e a dialetti austroungarici o beduini…
Solo il Gioco mi rende sopportabile la maggior parte degli esseri umani, soprattutto se mentre giocano stanno zitti, o si limitano a dire “Palla!”, “Out!”, “Briscola denari”, cioè le cose più intelligenti che diranno in tutta la loro vita. Che al poker online sia abbinata una chat, ma non un lanciafiamme interattivo, è già TROPPO per la mia sopportazione.

[ .... ]

Oggi, mattina presto di sabato, è capitato l’incredibile. Stavo litigando con la Madonna. Un po’ come mio padre che parlava con la stufa. No, non è questa la cosa incredibile. Lo sconforto può giocare brutti scherzi. L’avevo riesumata dal fondo di un cassetto, e ci stavo litigando. Le rinfacciavo tutte le mie rimostranze sull’inganno e la puzzonaggine delle istituzioni religiose. La cocente delusione della prima messa in ricordo della mamma a un anno esatto dalla morte. Avevo nove anni. Mi dissero vèstiti e andiamo che c’è la messa per la tua mamma. Potrò leggere una poesia per lei, dissi. No, ci pensa già il signor curato, disse mio padre. “Per la tua mamma”. E ci avevo creduto! Non pretendevo uno show in suo onore, con i canti e l’incenso, e la sua icona al posto della Vergine. Ma due paroline del prete apposta per lei. Dedicate proprio a lei. Davvero per lei. Un pensiero. Un ricordino. Una riflessione. Una cosetta durante la predica. Niente. Sapete come funziona, no? Venne nominata di striscio con burocratica freddezza al momento predeterminato. Quando nel rituale c’è una casella vuota e il sacerdote ci sbatte dentro il nome di chi è morto quel giorno un anno prima. Di chi è morto quel giorno tutti gli anni prima. Il 13 settembre mica era morta soltanto lei. Ricordati di nostra sorella Lucia. E di nostra sorella Giovanna. E di nostro fratello Mario… Una palata di nomi. Nella casella vuota. Che diavolo me ne poteva fregare, del loro “nostra sorella Lucia” nella casella vuota? Nel mio cuore sì, che c’era un vuoto. Spaventoso e indicibile. Dio, se c’era! Lucia era mia mamma, pensavo. Non era vostra sorella. Mia mamma adesso potrebbe essere mille cose. Un angelo, una goccia di pioggia, un bel sogno, l’amore che arde nel mio petto, la Donna di cuori nel mazzo di carte di un bambino, un bocciolo di rosa in oriente… Quello che solo so per certo è che cosa non è: lei non è nessuna cazzo di “nostra sorella Lucia” sbiascicata da un pretonzolo per quattro beghine. Vostra sorella un paio di cazzi! Lo gridai, piangendo. In chiesa. Così forte che l’eco della mia indignata voce bambina sarà lì ancora adesso che rimbalza tra le navate, in cerca di un’uscita. Non mi arrivò nessuno schiaffo. Anzi, mi parve di indovinare sul viso di mio padre un mezzo sorriso. Forse il primo della sua vita.
Non che fosse colpa sua, povera madonnina. Cominciava a farmi pena. Lì indifesa tra le mie grinfie blasfeme. Mi guardava basita e ingiustamente ferita. Ma io sbraitavo queste mie rimostranze alla signora Madonna morta un bel pezzo prima della mia mamma perché anche oggi era il maledetto 13 settembre, e mi frullava in testa una mezza idea di farla diventare un’abitudine di famiglia. Un giorno come un altro, per morire. Ma la mamma aveva tracciato la via.
Poi è successa la cosa. Alla pensioncina è venuto a cercarmi un tizio.



giovedì 2 febbraio 2012

PAOLO ZARDI "La felicità esiste"


Paolo Zardi
La felicità esiste
Alet edizioni
Pagg 278  € 10


Dopo tutte le parole che ho speso contro prostituzioni intellettuali, mafie giornalistiche, letterarie conventicole, recensire il libro di un Amico mi crea sempre qualche remora di tipo morale. Però con Paolo Zardi (che guarda caso non è Amico di vecchia data o di assidua frequentazione – ancora mai incontrati né telefonati – ma lo è per averlo scoperto fratello nella scrittura) il problema non si pone: questo ragazzo è oggettivamente troppo bravo. E chi ha letto i racconti del suo splendido esordio, Antropometria (Neo Edizioni), lo sa già.
Paolo, tramite il dono che ha ricevuto e la passione con cui lo mette a frutto, sembra essere qui per ricordarci una verità che in troppi vorrebbero calpestare e farci dimenticare: che la Narrativa è un’Arte, che lo Scrittore è, grazie al cielo (o grazie al cazzo, comunque Grazie!), un Artista. Dall’intelligenza acuta e penetrante. Ma invece di andare avanti a incensare in astratto le sue doti e il suo Talento, eccone una prova inconfutabile, scelta quasi a caso fra decine di pari o superiore livello (è un libro che mi sono goduto, ma alcune pagine mi hanno addirittura deliziato):

“Dal tetto bitumato sbucavano, equamente distanziate, le enormi ventole dei condizionatori, che d’estate mantenevano a una temperatura adeguata le brulicanti tonnellate di carne umana al lavoro là sotto. Era un luogo reale, quello che vedeva? C’entrava qualcosa con la natura umana? Erano trascorsi sì e no un centinaio di secoli da quando l’homo sapiens aveva iniziato a differenziarsi dalle scimmie. Con quali mezzi era possibile comprendere una simile disposizione delle cose? Ormai da anni, cioè migliaia di giorni, la vita della maggior parte dei suoi colleghi si svolgeva dentro a quel triangolo: lavoro, cibo, shopping. I soldi che guadagnavano da una parte venivano spesi sul lato opposto della strada. Mangiavano per poter guadagnare i soldi che servivano per mangiare che servivano… Alle cinque del pomeriggio la piccola fabbrica di componenti per macchine a controllo numerico apriva le porte e restituiva al mondo i suoi automi organici che con le loro utilitarie inorganiche sarebbero tornati nei loro appartamenti semiorganici, dalle loro famigliole tutte intente a formare, con pazienza e amore, nuovi automi: mentre uscivano da là, ridevano e scherzavano. Ma la notte, cosa sognavano quelle macchine viventi?”
[…]
“Dall’alto, il triangolo sembrava un formicaio dotato di vita propria, il cui scopo non era la felicità delle singole formiche, ma la perpetuazione della sua stessa esistenza. Generazioni di operosi insetti continuavano ad emergere dalle uova deposte dalle generazioni precedenti, a prodigarsi per compiere il loro dovere, e alla fine dello sforzo, a sparire, inghiottiti da un nulla al quale il formicaio nella sua interezza pareva immune. Non era chiaro neanche chi avesse messo in moto quel meccanismo.
Tra quelle costruzioni Baganis vide passare la macchina di Paola, che guidava con una mano sola (l’altra sembrava impegnata ad armeggiare con la boccetta di Amuchina). Vide lo scintillio del rosario fosforescente che penzolava come un amuleto dallo specchietto retrovisore. Quando l’avevano fatto in macchina, qualche settimana prima, come due ventenni (ma facevano più di ottant’anni in due) il piccolo Cristo era stato costretto a guardare, smarrito, privo anche della possibilità di coprirsi gli occhi con le mani inchiodate, il culo peloso di Baganis  che andava avanti e indietro, imprigionato tra le gambe schiaccianoci di una donna sposata.”


Più avanti ne ho trovate a bizzeffe, di pagine anche migliori di questa, ma non è che possa mettermi a ricopiarle tutte. Vi rovinerei la degustazione. E poi credo sia contro la legge… Che altro posso dirvi? Che è un libro a cui si vuole bene, perché si resta incantati e ammirati davanti alla maestria dell’autore nel conferire profondità e dignità psicologica a qualsiasi personaggio, a cominciare dal protagonista, Baganis, che finirà con l’assumere nel vostro cuore inaspettati contorni di eroe, pur essendo l’antieroe per eccellenza (al punto che in certi momenti fa quasi ribrezzo). Che le descrizioni sanno essere al tempo stesso esaustive e sintetiche, poche pennellate per vividi quadri. Che anche nelle parti più strazianti (c’è un bambino di otto anni che muore) la voce sa essere vera, onesta, nuova, mai patetica, mai ricattatoria. E che non mancano le spruzzate di cinismo e di lucida ironia, e i lampi comici, a creare quel contrasto che costituisce poi il nocciolo stesso dell’arte di scrivere, arte che oggi pochi, assai pochi, possiedono e padroneggiano.

In un panorama italico autoconsegnatosi (per masochistica scelta commercial-filosofica) alla Serie C dello sciatto, del banale, del ripetitivo, del non originale, dell’imitazionale, alla Serie D del livellamento in basso e dell’omologazione copincollereccia, e alla Serie Z meritofobica della fogna ideologica e delle velleità veteropoliticoidi (o religioidi da catechismo spicciolo), col risultato di produrre la superflua e sovraffollata (di)scarica diarroica del déjà vu, déjà lu, déjà vomi (già visto, già letto, già vomitato) Paolo Zardi (iconoclasta in questo senso? perché spacca la brutta icona del Brutto, e sputa sopra i suoi brutti cocci?) con la sua scrittura Alta (ma, si badi bene, tutt’altro che stucchevolmente “vecchia”, e tutt’altro che sterilmente virtuosistica o fine a se stessa) si pone in meravigliosa, benedetta controtendenza. A tal punto da sembrare un americano tradotto. Ma tradotto divinamente bene.
Non fatemi incazzare.
Paolo Zardi. La felicità esiste.
Sì: anche la felicità di leggere un bel Romanzo.
Parola di Scriba.