In un articolo apparso sul Corriere della sera di lunedì 23 maggio, lo scrittore Alessandro Piperno dichiara di essere “pazzo” per i grandi romanzi storici di Mario Vargas Llosa. Ovviamente, non solo questo è un suo pieno diritto, ma rivela anche ottimo gusto, perché Mario Vargas Llosa è a mio giudizio uno scrittore immenso, nonché uno dei più degni vincitori di Nobel per la Letteratura di ogni epoca.
Senonché, nel dire questa cosa, il buon Piperno arriva, ahimè, a premettere: “Temo [teme!] che i lettori tendano a prediligere la produzione più disimpegnata di Vargas Llosa: i deliziosi [e meno male che si salva in corner dicendo deliziosi!] romanzi ironico-picareschi come Pantaleòn e le visitatrici o La zia Julia e lo scribacchino”.
Ora, si dà il caso che La zia Julia e lo scribacchino sia, a mio molesto parere, un meraviglioso (e per fortuna ironico!, e per fortuna “disimpegnato”!) Romanzo, che io metto senza alcun dubbio fra i miei cinque preferiti di sempre. Non ho niente contro Piperno, ma posso dire che questo modo di sminuire un simile capolavoro è a dir poco assurdo, pacchiano e riprovevole?
Tale atteggiamento è ulteriormente indicativo, pur in modo indiretto, della cronica povertà (per non dire miseria) d’offerta nella narrativa italiana contemporanea. La nostra pseudo élite culturale, i nostri grandi editori, sembrano essersi fossilizzati su due soli tipi di proposte, che essendo antitetiche danno loro l’impressione di coprire tutto lo spettro di domanda dei lettori (mentre invece non è così, e chi vuole di meglio non può far altro che rivolgersi agli stranieri!): da un lato i raccomandatelli, le mogli d’arte, gli scarsoni politicizzati, le mezzeseghe sopravvalutate, la mediocrità pretenziosa e pompata, e la piaga del semianalfabetismo sciatto, banale e commercialoide (su cui stendiamo qui un peto veloso); dall’altro i secchioncelli più o meno eruditi e più o meno barbosi – l’accademia della muffa. Manca del tutto la via di mezzo. Questa via di mezzo si chiama: Scrittore. Avete presente? Stile, talento, inventiva, facilità e felicità di scrittura, uniti a freschezza, leggerezza, humor, capacità di esprimere e suscitare emozioni profonde, originalità (di temi, di idee e di linguaggio), passione straripante e sincera, dedizione, attitudine a osservare, penetrare, catturare, ricordare, e a produrre pagine ricche di polpa, di sugo e di midollo, nonché, naturally, qualcosa di vero e di urgente e di nuovo DA DIRE…
Da quanti decenni, oramai, se guardiamo i cataloghi della grande editoria nostrana, e i vincitori dei principali premi, ci tocca dedurne, con immensa amarezza, che “scrittore italiano” pare esser diventata, per autolesionistica scelta di ammiragli e timonieri, spesso a loro volta inadeguati, una patetica contraddizione in termini?
Senonché, nel dire questa cosa, il buon Piperno arriva, ahimè, a premettere: “Temo [teme!] che i lettori tendano a prediligere la produzione più disimpegnata di Vargas Llosa: i deliziosi [e meno male che si salva in corner dicendo deliziosi!] romanzi ironico-picareschi come Pantaleòn e le visitatrici o La zia Julia e lo scribacchino”.
Ora, si dà il caso che La zia Julia e lo scribacchino sia, a mio molesto parere, un meraviglioso (e per fortuna ironico!, e per fortuna “disimpegnato”!) Romanzo, che io metto senza alcun dubbio fra i miei cinque preferiti di sempre. Non ho niente contro Piperno, ma posso dire che questo modo di sminuire un simile capolavoro è a dir poco assurdo, pacchiano e riprovevole?
Tale atteggiamento è ulteriormente indicativo, pur in modo indiretto, della cronica povertà (per non dire miseria) d’offerta nella narrativa italiana contemporanea. La nostra pseudo élite culturale, i nostri grandi editori, sembrano essersi fossilizzati su due soli tipi di proposte, che essendo antitetiche danno loro l’impressione di coprire tutto lo spettro di domanda dei lettori (mentre invece non è così, e chi vuole di meglio non può far altro che rivolgersi agli stranieri!): da un lato i raccomandatelli, le mogli d’arte, gli scarsoni politicizzati, le mezzeseghe sopravvalutate, la mediocrità pretenziosa e pompata, e la piaga del semianalfabetismo sciatto, banale e commercialoide (su cui stendiamo qui un peto veloso); dall’altro i secchioncelli più o meno eruditi e più o meno barbosi – l’accademia della muffa. Manca del tutto la via di mezzo. Questa via di mezzo si chiama: Scrittore. Avete presente? Stile, talento, inventiva, facilità e felicità di scrittura, uniti a freschezza, leggerezza, humor, capacità di esprimere e suscitare emozioni profonde, originalità (di temi, di idee e di linguaggio), passione straripante e sincera, dedizione, attitudine a osservare, penetrare, catturare, ricordare, e a produrre pagine ricche di polpa, di sugo e di midollo, nonché, naturally, qualcosa di vero e di urgente e di nuovo DA DIRE…
Da quanti decenni, oramai, se guardiamo i cataloghi della grande editoria nostrana, e i vincitori dei principali premi, ci tocca dedurne, con immensa amarezza, che “scrittore italiano” pare esser diventata, per autolesionistica scelta di ammiragli e timonieri, spesso a loro volta inadeguati, una patetica contraddizione in termini?