"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

lunedì 19 settembre 2011

Stronkabukko Show – parodia (neanche troppo) di tipica recensione italiota: “Ma come scrive bene Annarita Falloide!”



Rece apparsa vaffandì 32 cinquembre duemilaekualkosa sul Supplemento Cultura del Gazzolino Puttano, firmata a quattro zampe da Assunta Lecchini Servidei e Piercinzio Lu Macaco Cammeriere.

La bravissima Annarita Falloide (che secondo i maligni pubblicherebbe libri solo perché figlia di un padre sottosegretario ai bombardamenti, e stronzo, e di una madre che scrive su autorevoli testate, e vacca) felicemente giunta, sulle ali del successo dei precedenti bestsellers Zia Crostina crede ancora nelle fave (meritato Premio Fattucchiera, sta per uscire il film) e Scendi mò dal motoculo che t’incarro (meritato premio Maga Magò, stanno per uscire il videogioco per bambini e la sit-com per lobotomizzati) giunta, dicevamo, al suo ventottesimo romanzo a soli ventisei anni, e sole ventisei operazioni plastiche per rifarsi la figura, ci regala una storia talmente squisita, originale, ben scritta (La contessa Stocca Gandolfi Gliolo è di nuovo incinta, Il Pizzino Editoriale, € 28 a pagina) da essere di certo destinata a dominare, con merito, le classifiche, e questo indipendentemente dalle lenzuolate di pubblicità gratuita (se l’editore possiede anche giornali, che male c’è?) e dai premi sacrosanti che le verranno assegnati (tanto per rispondere ai prevedibili lazzi invidiosi dei soliti rozzi e non autorizzati outsider alla Pezzoli – chi diavolo è costui?)
Come sempre ben assistita e consigliata dalla bravissima Mizzy Confettucci d’Abatjour, sua editor e agente, la penna magica di Annarita Falloide ancora una volta non ci risparmia originalità, preziosismi e colpi di scena. Leggendo questo ennesimo grande romanzo italiano ci si commuove fino alle lacrime (pag. 138: “Oh amore, amore mio, quanto ti amo!”), si muore di paura (pag 244: “Ah! Aiuto! Un topo!”), ci si scompiscia (pag 434: “Un uomo entra in un caffè. Splash.”), si riflette con intelligenza sui problemi del mondo (pag 601: “Cioè, voglio dire, ah, ok, io voglio assolutamente la pace!”), si piange a dirotto (pag 852: “Trisnonno, trisnonnino mio, perché te ne sei andato a soli 119 anni? Non hai pensato al nostro dolore, brutto egoista?, al vuoto che lasciavi?, tutti uguali questi uomini!”) ci si sorprende per l’incredibile genialità del finale (pag 1.033: “E vissero insieme felici e contenti”).
Ah, quasi dimenticavamo: da domani non perdetevi per niente al mondo (allegato al Gazzolino Puttano con un piccolo supplemento di prezzo di soli 3 euro) l’inedito di Annarita Falloide, di sette pagine un po’ sgrammaticate (la d’Abatjour stava in vacanza) Stamatina mi ho lavata la facia”, me-ra-vi-glio-sa descrizione psicopoetica del lavandino di casa sua, scritto – è questa la trovata divina! – immaginando di non saper scrivere. Di non avere neanche un po’ di talento.


Grazie alla strategia del marketing pubblicitario, di premi controllati e recensioni pilotate (cioè usando il proprio capitale e la propria forza per consolidare posizioni di già assoluta preminenza), e grazie anche, diciamolo, alla passività, credulità e pigrizia di un'ampia fetta di lettori, la grande editoria italiota è riuscita nel tempo a imporre il proprio presepietto fisso di scribacchini più o meno mediocri, cui negli ultimi tempi offre persino, per farli meglio entrare nelle teste della gente, continue comparsate giornalistiche da opinionisti (patetici) o da espertoni letterari (inadeguati), o da autori (presunti) di esercizietti a pagamento con cui far finta di insegnare scrittura creativa ai paguri e alle marmotte. Un presepietto talmente fisso da arrivare, oramai, a spacciare in allegato ai quotidiani persino gli inediti, spesso illeggibili, di questa gente qua. Come dire: “Raschiamo il fondo del barile, perché tanto è chiaro che altri autori non ce ne sono, non ce ne sono! – gli scrittori sono questi che vi diciamo noi, a cui abbiamo dato la patente noi!”… Siamo infatti giunti all’assurdo di una marea di gente disposta a sganciare soldi per leggere inediti di poche paginette e di nessun valore scritti dalle belle statuine del presepietto editoriale, quando su blog tipo Grafemi, tanto per dirne uno, si possono trovare GRATIS racconti di livello eccelso, o comunque di gran lunga, ma veramente di gran lunga, migliori. Un presepietto che in ultima analisi permette a lorsignori di risparmiare il tempo, i soldi, la fatica, la passione e la competenza necessari all’onesta RICERCA di veri nuovi talenti… ricerca che a ‘sto punto è contro il loro interesse, perché se malauguratamente sbucassero fuori delle figure d’altri tempi e che loro speravano estinte (cioè degli Scrittori), poi magari qualcuno si accorge della Differenza e… gli salta per aria il presepietto! Sapete che vi dico? Che sarebbe istruttivo e divertente se saltasse fuori qualche bella Intercettazione anche da quell’ambiente lì…

E mò me so’ rott’u caz.


J. Stronkabook

mercoledì 14 settembre 2011

Chiamalo Grande Romanzo



Henry Roth
Chiamalo sonno
Garzanti
Pagine 512
Euro 17.60 (molto ben spesi)
Voto

Ho conosciuto un bambino di nome David, partorito dalla talentuosa penna di uno Scrittore che dopo questo romanzo si bloccò, e volle smettere di scrivere, per decenni. David all’inizio della storia sta per compiere 6 anni, ed è un bambino ebreo di origini polacche immigrato dall’Austria nella New York di un secolo fa, dove, quattro anni prima, ha raggiunto il padre insieme a una mamma dolcissima che ama alla follia. David è terrorizzato da questo padre collerico, ostile e incapace di affetto – un onestuomo, in fondo, che si guadagna da vivere come tipografo e in seguito come lattaio, ma con troppa negatività che gli rode dentro e lo corrode, e lo rende pericoloso. Ma David è oppresso da tante altre paure. David ha paura della porta della cantina e delle scale oscure, ha paura dei morti nelle bare, ha paura delle torbide e incomprensibili avances di una ragazzina più grande. David trema per l’improvvisa intuizione che le carrozze degli sposalizi sono le stesse dei funerali. “Tutto apparteneva allo stesso buio. Coriandoli e bare”. David sa che dovrà trovare il modo di vincerle, le paure: “E allora, o trovava un solvente per le sue paure, oppure era perduto”.

L’America d’inizio secolo (scorso) dipinta con le ciglia degli occhi di un bimbo: descrizioni bellissime, atmosfere d’intimità domestica evocate con maestria impressionante, pennellate di poesia, personaggi che non si lasceranno dimenticare, strade in cui ci sembra di camminare anche noi.
Peccato solo per la traduzione un po’ anticheggiante, che richiederebbe (a mio molesto parere, è naturale) una rispolverata: “il desinare” al posto di “pranzo”, e “impiantito” per “pavimento”, e “non posso venire costà” invece di “non posso venire lì da te”, le sfilze di “egli” e di “ella”. Ma può darsi sia una scelta voluta (e discutibile) per restituire i sapori dell’epoca (il romanzo, ambientato a inizio Novecento, è stato scritto nel ’34, ma la traduzione è del ’64, poi riveduta nell’86). Se potete, concedetevi di leggerlo in lingua originale, anche per gustare i continui cambi di registro, e i salti dallo yiddish all’inglese impossibili da rendere in altri idiomi. Molto inflazionata (e, come spesso capita, a sproposito) una delle espressioni-jolly che più mi stanno sulle palle quando un romanzo ne è disseminato: “Si strinse nelle spalle”, forse la più inutile del mestiere di scrittore (o traduttore, perché continuo a sospettare sia tradotta male – chi lo dice mai, in italiano, stringersi nelle spalle?). Ma sarebbe assurdo dilungarsi sui difetti, perché piacevolissima è la lettura di questo romanzo meraviglioso scritto nell’anno in cui nacque mio padre. Se ne ho sottolineato piccole magagne, è solo per dimostrare che la mia non è cieca infatuazione, ma un’esaltazione lucida, onesta e convinta davanti a un capolavoro di Scrittura che mi spinge a inginocchiarmi e a dare un bacino alla copertina.

Come sempre accade al cospetto dei Grandi, non mancano i lampi di umorismo, come nel prologo, quando la madre, appena approdata col figlioletto a Ellis Island, non riconosce il marito (che della cosa si secca parecchio…), o in questa descrizione di giovane zia sgraziata e grassoccia: “Le gambe le piombavano nelle scarpe senza beneficio di caviglie”. Perché quella di Henry Roth è proprio una penna multigusto, come piacciono a me: lo zucchero e il fiele, il miele e il vetriolo. Le penne monogusto (insipido, fra l’altro) le lascio tutte alla premiopoli italiana: a me hanno rotto il cazzo.

La seconda delle quattro parti (o “libri”) è dedicata a questa zia, sorella della madre ma diversissima da lei, malsopportata (dal cognato) e ingombrante ospite (vera bomba-zizzania a innesco linguacciuto) della già non serena famigliola, finché non riuscirà ad accalappiare un vedovo scialbotto e molliccio con cui sistemarsi. La terza parte parla invece dell’iniziazione religioide di David presso un rabbino manesco, prodigo di insulti e colorite maledizioni (quasi mai per lui, più intelligente degli altri marmocchi), ma tutto sommato non cattivo d’animo. La quarta e ultima è forse la più bella, più varia e più struggente, la più emozionante e densa di accadimenti, quella in cui lo stile osa più sperimentazioni, e quindi non ne parlerò, per non levarvi nemmeno un briciolo di godimento. Siete ancora qui? Non fatemi incazzare, è ora di precipitarsi in libreria! Di Roth scrittori, nella mia ignoranza, conoscevo solo l’esistenza di Philip e Joseph. Sia benedetto colui che mi ha fatto conoscere Henry. Sono sicuro che anche quelli fra voi che non lo conoscevano mi saranno grati per questo consiglio.
Parola di Scriba.