"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

giovedì 6 dicembre 2018

No-Saint Nicklaus, scopritore di Tal(i)enti

«Scrivere fu il suo unico modo di allenare il metacarpo e tutte quelle falangi»

Quest’anno ho deciso di usare il mio blog per fare un (minuscolo) regalo di Natale, o di San Nicola, o di Solstizio d’Inverno, o di cosa cavolo vi va di festeggiare. Un regalo ai miei lettori buongustai, e un regalo a una ragazza che lo merita, ma soprattutto ho voluto farMI un regalo per stare bene io stesso, perché come molti (o forse pochi) sanno è il donare, assai più del ricevere, che provoca la vera, incontenibile felicità.
Molte, fra voi che mi seguite, sono le persone che scrivono, e che scrivono bene, benone, benino. Ma Cristina Taliento è l’unica persona a cui sia andato a dire: “Tu scrivi divinamente”. E non essendo io un ipocrita né un ruffiano, né tantomeno uno squallido calcolatore del “do ut des”, se gliel’ho detto è perché lo pensavo. Cristina, come molti veri artisti, è persona umile e schiva, non ambiziosetta, poco propensa a mettersi in mostra (non sono neanche riuscito a contattarla per avere il permesso di questo post, e la sua recente latitanza dal blog e dai social mi sta anzi facendo un pochettino preoccupare, e volevo quasi rinunciare, ma poi ho pensato che era una cosa bella, e spero tanto che anche lei, se vi si imbatterà, vorrà considerarlo un piccolo bel regalo, una piacevole sorpresa). Se io anziché essere uno scomodo outsider, un due di picche (anzi, un due di lenticchie), visto nell’ambiente come una specie di folle e di appestato, fossi uno di quegli scrittoroni in grado di aiutare altre persone a pubblicare, mi impegnerei ad aiutare lei. Ma devo contentarmi di questo invisibile gesto, di questo message in a bottle gettato fra le correnti dalla mia zattera di carta. 

Cristina Taliento
Volevo anche buttar giù due righe di presentazione, ma non avrei mai potuto trovare parole migliori di quelle che Cristina usa per presentare se stessa nel profilo del suo delizioso blog Il ballo dei flamenchi (a proposito: è un blog che merita davvero, se vi capita fateci un salto!):
«Oh... sentite, è nata nel 1993. Le piacciono sapeste quante cose. Prima fra tutte, l’Umanità, quella fatta dagli uomini tristi e felici. Starebbe ore e ore a guardare il modo in cui sopravvivono, si ammalano, si innamorano, le espressioni che fanno quando inventano le loro bugie quotidiane, portando gli oggetti nei loro nidi. Le interessano le cose che dicono, quelle che non diranno mai. Vorrebbe riuscire a capire come funzionano i loro corpi e le loro menti. Per questo, scrive racconti e studia Medicina e Chirurgia». Ma è ora che mi levi di torno e lasci spazio a Lei, alle sue parole. Non avendo potuto chiederle di scegliere per me i suoi brani preferiti, e avendo dovuto alzar le mani in segno di resa davanti alle troppe, davvero troppe cose belle e toccanti che sobbollono nel suo blog come una calda sorgente sotto un laghetto ghiacciato, ho deciso di proporvi semplicemente l’ultima perla da lei postata, ormai quasi tre mesi fa. Sarete poi voi, se vorrete, a munirvi di setaccio per trovare altre pepite sul fondale di quel laghetto. Pronti per il viaggio? Andiamo:

Io e Genda
di Cristina Taliento

«Alcune sere, quando non sono impegnata a vivere, mi ricordo di quando scrivevo, dei miei personaggi e di tutto quello che la Tana significava per me, quando di parlare non mi andava e tutto quello che avevo era la mia fantasia. Non vivevo in un mondo parallelo, né tutto ciò che inventavo era davvero vivido, ma una frase che mi suonava bene in testa mi bastava per passare un bel weekend e una bella settimana. Io, i biscotti, i miei personaggi.
Genda era uno di loro, un personaggio, un matto scorbutico, vecchio poeta in esilio, zoppicante, si trascinava dietro la sua gamba e la sua malinconia. Lo odiavo. Gli volevo bene.
Genda era uno degli ultimi, un emarginato, anche se troppo orgoglioso per ammetterlo; e allora si metteva davanti a tutti, arrabbiato per i telegiornali e le idee politiche dei gatti che passeggiavano  sui muri.
Non litigavamo, io all’epoca ero piuttosto incline all’apprendimento e Genda mi elargiva con caritatevole perseveranza le sue lezioni di vita.
Dicevo: “ Noi siamo cuori sentimentali, ci muoviamo come alghe con la corrente. Basta un ormone e noi non siamo più noi”
Diceva: “Eh no! Siete voi eccome. Voi non siete fantasia a comando, voi siete proprio testosterone, serotonina, siete enzimi, siete piogge di sinapsi, cascate di potenziali d’azione. Siete cespugli di cellule mezze buone, mezze marce. Voi non fate altro che fraintendere il tramonto, idealizzare l’alba”.

Non riuscendo a ribattere, me ne uscivo con frasi come “ma questa è un’ovvietà“, anche se chiaramente, influenzata da quella solfa, divenni ben presto un pomodoro positivista di stampo liberale.

Ora non lo saprei più imitare, però quella sua rabbia era la cosa che mi piaceva di più e anche ciò che lo distingueva da altri miei personaggi come, ad esempio,  Jack Pavimento, l’Adolescente, Flacco Squidegno o il Cane Sentimentale. Genda aveva il Mondo sullo stomaco e anch’io, in fondo, ce l’avevo. A volte, seduti sul braccio di una gru, di notte, io e lui guardavamo il paese e la luna e tutto ci sembrava impossibile, ci sembrava che non ci avrebbero mai preso a Medicina, che Berlusconi avrebbe governato per sempre e che nessuno ci avrebbe mai davvero capiti, non così, giusto per, ma capiti, sul serio, veramente, anche se stanchi e in silenzio. Dubbiosi guardavamo il cielo, spogli dei nostri quotidiani modi di fare, ci abbandonavamo ai sogni – ognuno ai suoi – con gli occhi grandi di chi ha fame. Poche cose ci piacevano in fondo e parlare del futuro non era per noi.
Io avevo diciassette anni più o meno e lui di sicuro ottanta. Non lo so perché me l’ero immaginato anziano, forse perché volevo attribuire  una certa fragilità alla rabbia o, al contrario, accendere di fuoco la fragilità.

Ad ogni modo, crescendo, quel Genda via via si trasformò, sempre più razionale, più comprensivo. E la rabbia, che poi era simile alla mia di rabbia – alla rabbia di una ragazzina che da fuori non lo diresti mai – nel giro di pochi anni, svanì. Genda capiva e scusava, s’indignava ma poi si calava nei panni e perdonava. Quel matto, finalmente, si era dato una calmata. Per anni non l’ho più rivisto.

Eppure, m’immagino ad un tratto di salire sul braccio della gru una sera di queste, una di queste belle sere di settembre dove i grilli fanno gli arpeggi coi loro baffi e l’aria che arriva dai campi mi racconta come l’uva diventa vino. M’immagino io con la corona d’alloro in testa e un bel fiocco rosso, giacca e pantalone e un bicchiere di spumante in mano.
“Tieni” dico porgendo il bicchiere al Buio.
“Grazie” dice il Buio che, alla fine, non è altri che Genda.
“Ti sei laureata allora”
“Si, ma la strada è lunga, lo sai”. E rimaniamo in silenzio per un quarto d’ora. Nessuno dice niente e nessuno pensa niente. Non siamo più arrabbiati, anche se ogni tanto viene ancora ad entrambi la voglia di scappare di casa, zaino in spalla, fino alla montagna più alta.

Mi dispiace di aver abbandonato i personaggi, ma più di tutti mi dispiace per Genda, per aver smesso di dargli una voce.
A volte, un pensiero semplice è che il tempo porti assuefazione, faccia svanire i famosi ardori giovanili e, più in generale, ci faccia dimenticare chi siamo stati, quello che abbiamo provato, inventato. A volte sembra quasi come se sulla gru ci siano tante me di età diverse, una per ogni fase di vita, tendenti ad aumentare in numero a mano mano che invecchio. Ma come dicevo è un pensiero semplice, facile ma mica vero, perché in fondo è sempre e solo tutto dentro. Tutto quanto.
E, anche se il tempo per scrivere e quello per vivere attingono da spazi, dimensioni e sensazioni diverse, anche se la fantasia è un posto dove ci piove dentro e io corro a ripararmi sotto tutte le tettoie che mi capitano a tiro, mi sentirei di dire a Genda, qualora fosse preoccupato per il cambiamento della vera Cristina, che quella ancor più vera è sempre stata su questa gru, a occhi chiusi, sulle stelle.»

Che altro aggiungere? Solo questo: se in circolazione ci fosse ancora qualche editore munito di quella curiosità e di quella voglia d’esplorare senza le quali sarebbe meglio cambiare lavoro e smettere di fare danni alla narrativa italiana (per pigrizia, negligenza, insipienza o presunzione) lo invito a prendersi la briga di dedicare una bella giornata a visitare il blog Il ballo dei flamenchi e a saccheggiarne con piglio famelico almeno la sezione “Racconti”. Perché alla faccia di quei luridi pezzi di merda che a ogni piè sospinto mi danno dell’invidioso, io ho sempre fatto il tifo per le persone che meritano, e sempre gioito per i loro (sempre più rari) successi. E se Cristina, oltre alla splendida persona che è e al meraviglioso medico che sarà, dovesse diventare una delle Scrittrici italiane più lette, io ne sarei, semplicemente, FELICE.
Felice inverno a tutti voi!