"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

lunedì 14 gennaio 2019

Tarzan e il Reddito di Cheeta Dinanzi


Tarzan aveva mangiato pesante (ippopotamo fritto) ed ebbe un bruttissimo incubo.
Il Reddito di Cheeta Dinanzi gli aveva permesso di sposare Jane. Ma quella, trasformatasi da amante selvaggia in mogliettina-tipo, aveva preso subito a scassare: e perché non si vestiva come diceva lei, e perché non aiutava a pulire bene la casa sull’albero, e perché i soldi non bastavano mai, e perché non riusciva a metterla incinta malgrado lo stesse obbligando a copulare diciotto volte al giorno, distruggendolo. Ma questa era solo la più piccola delle seccature arrecategli dal meccanismo del Reddito di Cheeta Dinanzi, che gli stava sconvolgendo la vita e anche corrodendo un pochettino la minchia. Ogni santo giorno il sindaco della Giungla lo convocava per un’oretta di lavoro volontario per la pulizia del sottobosco della medesima, e quasi sempre l’oretta diventava due ore e tre quarti. Ogni porca mattina doveva presentarsi al Collocamento Forestale per dei noiosissimi corsi obbligatori, in cui tentavano di insegnargli cose che non gli interessavano, e per le quali non era portato: tenere la contabilità in un ufficio, vendere aspirafoglie di ramo in ramo, protocollo dei call center. Ogni tanto riceveva le visite a domicilio di un fastidioso ispettore incaricato di accertare, con minuziose misurazioni, che la metratura della casa sull’albero non comportasse decurtazioni dell’assegno del Reddito di Cheeta Dinanzi, e già che c’era ficcava il naso nelle sue scorte di frutta e di crodino. Tarzan cominciava a non poterne più. Era esasperato e anche parecchio incazzato. Non ci capiva più niente: se il reddito era di Cheeta, perché non se lo teneva quella dannata scimmia, e non se la faceva sconvolgere lei, la vita? 
Nel rispetto del meccanismo del Reddito di Cheeta Dinanzi cominciarono ad arrivargli le proposte di lavoro. La prima proposta prevedeva che andasse a vendere assicurazioni ai gorilla a novanta chilometri di distanza. Tarzan rifiutò la prima proposta. La seconda proposta prevedeva che andasse ad abbattere piante e a liberare la foresta dalle liane a duecento chilometri di distanza, nell’ambito del nuovo piano di Crescita “asfaltiamo la giungla, che bello”. Tarzan rifiutò la seconda proposta. La terza proposta prevedeva che se ne andasse a mille chilometri di distanza a fare il minatore moribondo. Tarzan rifiutò anche la terza proposta e finalmente l’incubo finì. Si svegliò, e tutto era come prima: Jane lo deliziava del suo amore ma non scassava mai, nessuno veniva a dirgli cosa dovesse fare o non fare, lo stomaco aveva ripreso a funzionare, e Cheeta, com’era giusto che fosse, non percepiva nessunissimo assegno ricattatorio. Tarzan sorrise, mollò una piccola scorreggia d’assestamento e sospirò di sollievo. Era di nuovo libero, com’era sempre stato. 


mercoledì 2 gennaio 2019

Compatisco

Compatisco (ma bonariamente, lo giuro, bonariamente) chi non conoscerà mai il potere delle parole scritte. Adoro il cinema (arte sublime ed emozionante) e guardo in media un film al giorno, spesso con estrema soddisfazione e goduria, ma coloro i quali qualche decennio fa sostenevano che i film erano destinati a sostituire i romanzi (come se ne rappresentassero una semplice “evoluzione” tecnica) erano dei poveri fresconi che non capivano un beato cazzo. 
Il potere evocativo e magico delle parole scritte: ne fai cozzare una contro l’altra anche solo due o tre, ed ecco sprigionarsi scintille capaci di creare un nuovo mondo a sé stante, in cui ti puoi immergere, bearti, estasiarti, perderti, spaventarti, commuoverti, consolarti. Una semplice combinazione di venti o trenta parole particolarmente energica, originale, geniale, può farti rimanere imbambolato, incantato per tutto il tempo che vuoi, a leggerle e rileggerle e riguardarle e ripensarle e trarne ispirazione per una durata superiore all’intera scena di un film, all’intera puntata di una serie tv diluita nella furba insulsaggine come vino annacquato da un vinaio imbroglione. 
Ultimamente leggo molto di più (e leggevo già parecchio) e cerco di scrivere meno, ma meglio, sempre meglio. (Quanto a riuscirci, non starà a me giudicare). In un mondo con miliardi di libri, di cui il 99,99% è fuffa per non dir di peggio (e lo stesso vale, purtroppo, per i film), si dovrebbe scrivere solo in uno stato di grazia e di ispirazione esaltata e semidivina, per contribuire a creare nuovi mondi meravigliosi, e se in quel dato momento o in quel dato periodo non ti trovi in tali condizioni, se non sei all’altezza di concepire un capolavoro o almeno di provarci, tanto vale ricaricare le batterie e nutrirsi di ambrosia infuocata leggendo i mondi creati dalle migliori scintille degli altri, tanto vale fermarsi un attimo nell’ozio benedetto e fecondo, piuttosto che diventare impiegatucci della parola semitruffaldini, che scagazzano la loro ulteriore insulsa superflua diarrea di pagine da spacciare per letteratura presso gente che non capisce un cazzo, o che non vuole, preferisce, ha convenienza a non capire un cazzo, per bassi, sempre più bassi e deprimenti motivi commerciali, di convenienza più o meno mafiosa o di personale vanagloria. 
Non mi stancherò mai di ripeterlo: proprio perché le Parole possiedono un potere evocativo e magico, non c’è bestemmia peggiore dell’usare parole deboli o mediocri. (E perder tempo a leggerle è forse pure peggio, a meno che non capiti per sbaglio, e non troppo spesso). 
Perché anche le parole deboli o mediocri hanno il potere di creare mondi. Mondi di merda. Aborti imperdonabili.

Naturalmente parlo per me. Da artista individualista quale sono, non ho nessun interesse a propormi come leader di un nuovo movimento o di una nuova corrente, né tantomeno come uno stronzo capo cosca o capo conventicola, con la pretesa di dire agli altri cosa debbano fare. (Quale altro stramaledetto “ismo” dovrei mai fondare? Il perfezionismo? A volte la perfezione è noiosa. E poi chi la definisce, la perfezione? Io no di certo). È solo una pura questione di coscienza personale. E di spietata onestà autocritica: se in un certo campo mi sentissi un bluff o un mediocre, cercherei di fare qualcos’altro, perché la vita è breve, e peggio del passarla a prendere per il culo gli altri c’è soltanto il passarla a prendere per il culo se stessi. Fino a qualche mese fa ero convinto che bastasse essere bravi, avere qualcosa da dire e fare del proprio meglio (chi vuole, colga pure della grande ironia in quel “bastasse”, vista la mediocrità imperante che ci ammorba, neanche il titolo per la nostra Era fosse “Colpo di Stato dei mediocri”!) Adesso ho capito che essere molto bravi non basta – e più quest’aspirazione a eccellere suonerà in controtendenza col mondo, più mi ci avvinghierò! – ho capito che con me stesso dovrò essere molto, molto, molto più esigente. Ma nessuno è costretto a seguirmi. Per carità. Anche perché mi è ben chiaro che io, per uno strano e misterioso destino (potrei chiamarlo Destino-Morselli), resterò un fallito (inascoltato, incompreso e deriso) anche il giorno in cui dovessi riuscire (e non è detto vi riesca) a diventare il più bravo di tutti. Tutto è vano. Tutto è inutile. Ma ci sono inutilità meravigliose come galassie luminescenti. La grande scrittura è una di queste. E se qualcuno preferisce scorreggiare nel buio, in cambio dei disgustosi applausi (e dei disgustosi soldi) di qualche stupido imbecille, affari suoi. Gli affari sono affari. E, come tutti sanno, nel mondo di oggi non vi è affare più redditizio della spazzatura.

Le mie migliori letture nel periodo pre e post natalizio: consigliatissime!