"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

lunedì 30 gennaio 2023

Papà

Caro, meraviglioso papà: oggi è il mio compleanno, ma non potevo aspettare che venisse il tuo, il 26 maggio, per parlare di te. E allora voglio farmi questo regalo: ricordarti con qualche pensiero da far leggere agli amici.

"Igi", il mio teppistello 
 all'età di 12 anni

Il 16 novembre 2022, verso le quattro e mezza del pomeriggio, mi succede una cosa che credevo potesse esistere solo tra fratelli gemelli, non tra padre e figlio. Dopo un paio d’ore di passeggiata lacustre sto salendo verso il parcheggio per tornare alla macchina, quando all’improvviso avverto uno strano dolore alla parte superiore della gamba destra, di un’intensità e di un genere mai provati, che mi fa procedere con una certa fatica. Per brevi attimi mi paralizza proprio. Devo fermarmi sul marciapiede, la gamba rigida non mi risponde più. Poi la sensazione svanisce. Penso a un problemino muscolare (ma anche se morde come un crampo non sembra esattamente un crampo, è di natura completamente diversa), e do la colpa alla lunga passeggiata, un’abitudine che avevo perso, e che ho ripreso oggi nella speranza di mettermi a posto con lo stomaco. E invece proprio in quel momento, a pochi chilometri di distanza, mio papà cadeva sull’asfalto nella strada davanti a casa (era uscito in mia assenza per fare una cosa che gli avevo sempre proibito di fare) e si rompeva il femore. Della gamba destra. Ma quando arrivo, ignaro di tutto, devono averlo portato via da poco, e lì ad aspettarmi non c’è nessuno, dando così origine a minuti da incubo. Eravamo d’accordo che con due colpi di clacson sarebbe sceso ad aprirmi lui, ma dopo aver suonato aspetto e aspetto e il portone non si apre, resta chiuso. Scendo dalla macchina. Ho le mie chiavi, e sarebbe stato meglio non averle. Apro la porta sull’incomprensibile e sul terrorizzante. Vedo per terra del cotone insanguinato. Una sdraio sbattuta in mezzo al garage (penso per farmi capire di non entrare con la macchina, in realtà l’avevano usata come barella) e altre cose fuori posto. Sembra la scena di un’aggressione. Corro chiamandolo e già quasi piangendo, prima verso la lavanderia, poi su di sopra, dove a parte il gatto sul cuscino grande in sala non c’è nessuno, proprio nessuno. Sconvolto, ritorno fuori in strada. Vado al cancelletto. Nessuno in giardino. Nessuno nei dintorni. Nella cassetta delle lettere le sue chiavi di casa. Finalmente la voce di un vicino. In breve mi racconta della caduta, dell’ambulanza, del codice verde. Mi precipito al pronto soccorso (l’ospedale di Cittiglio, dove siamo nati io e mio fratello e dove è morta la mamma, dista meno di un chilometro).

Sto un po’ accanto a te. Sei disorientato, e hai paura di venire sgridato per la cavolata che hai fatto, e che mi hai appena confessato subito dopo esserti inventato un’altra panzana. Ma io ti accarezzo la testolina e dico che sei già perdonato. Dalla sala d’attesa affollata in cui m’hanno fatto tornare, tendendo l’orecchio capto le parole “ghiaccio e antinfiammatorio”. Ma non stavano riferendosi a te, sarebbe stato pretendere troppo. Insomma rottura del collo del femore. E dopo tre giorni l’operazione, andata benissimo. Ma poi…

Giovane uomo innamoratissimo della sua Lidia

Diciannove anni fa, negli ultimi suoi giorni, la mamma era preoccupata per i nostri caratteracci: “Questi due senza di me si scannano”. E invece, mese dopo mese, anno dopo anno, un crescendo di concordia e di giorni sereni e felici, con tutti gli alti e bassi dell’umana debolezza. Quanto affetto, quanta tenerezza, quanto divertimento (più invecchiavi e più diventavi simpatico e spiritoso, ti adoravano tutti, avevi subito conquistato anche le infermiere dell’ospedale, tranne una su cui stendiamo un velo pietoso), e quanta compagnia ci siamo fatti: eri mio padre e mio amico, mio alleato e mio fratello, ma eri anche il mio bambino, che accudivo e coccolavo e proteggevo (non abbastanza, a quanto pare). Quando stava per iniziare un film e appariva la dicitura “bambini accompagnati” io scherzosamente alzavo la mano e dicevo “Ci sono qua io”, e tu annuivi e sorridevi. Quanti bei momenti insieme: le passeggiate, i film, i documentari e le partite alla tv, i tuoi appassionanti racconti dei tempi lontani, e poi leggere gli stessi libri (lo chiamavi “il pacco libri” quello che ogni anno facevamo arrivare da ibs attorno a San Nicola, stracolmo di romanzi e dvd). E poi la casa da mandare avanti insieme, e il gatto Isidoro che in apparenza ti andava poco a genio, ma poi eri proprio tu a dargli i vizi come i bocconcini di prosciutto cotto durante le nostre frugali e intime cenette. E le indimenticabili vacanze al mare, dove fino a 85 anni, circa tre e mezzo prima della fine, ancora ti facevi le tue nuotate e poi corricchiavi sulla passerella per andare alle docce, il nostro amato stabilimento balneare, sempre lo stesso, dove ogni giorno si pranzava guardando il mare luccicoso e il verde della pineta, e dove eri la mascotte di tutti, benvoluto da tutti, tranne quelle rarissime eccezioni che sempre ci saranno nell’umana varietà. Ricordo un non simpaticissimo cameriere che un giorno sparlò di noi non accorgendosi che io ero seduto lì vicino e gli davo le spalle: “Quelli che sembrano due froci”. Proprio a te, papà, che avevi sposato una delle più belle ragazze di tutta la provincia. Finsi di non aver sentito. Ci rimasi malissimo e provai uno stupido imbarazzo, e invece, ripensandoci adesso, che splendido involontario complimento ci aveva fatto quel piccolo uomo!

Lungi da me dare tutte le colpe ai medici, o diventare una di quelle persone che fanno causa agli ospedali. Ma nitida è in me l’impressione che questi soggetti, pur quasi tutti umanamente ottimi, stessero sempre due o tre passi indietro rispetto all’emergenza. Subito dopo l’operazione mi dicevo preoccupato per tutta quella tosse e tutto quel catarro, e loro mi rassicuravano dicendo che si trattava delle vie respiratorie “alte”. Alte un cazzo. Polmonite. Ma stavi lottando per farcela, contro quella brutta bestia, e stavi per essere trasferito nel centro per la riabilitazione. E poi, la mattina del 29 novembre, quel tampone fatto solo perché prescritto dalla prassi prima di un trasferimento. Positivo. Sia te che il nuovo compagno di stanza. Non si saprà mai chi ha infettato chi. La mazzata finale. Già quasi una sentenza. Diciamo così: se ti avessero mandato un killer, costui non s’è presentato armato di coltello, ma di mitra, bazooka e bombe a mano, mio povero papà. Altri nove giorni…

Quegli ultimi giorni mi hanno fatto far pace con la tecnologia, con quelli che avevo sempre definito “smerdòfoni”. Un’infermiera, più angelica che umana, ha stabilito un contatto tra noi e te attraverso delle videochiamate, che ci hanno permesso di non farti sentire completamente abbandonato in quella che era diventata una camera sigillata dove entrava solo personale medico vestito da astronauta, ci hanno dato modo di coccolarti a distanza, rincuorarti, persino farti sorridere…. Alla fine delle videochiamate ci si mandava i bacini. Mio fratello dice sempre che nelle due fatte con loro (io stavo in autoisolamento a casa nostra) era sempre me che cercavi, sempre di me che chiedevi. Per le chiamate con me veniva qui una delle mie fantastiche nipoti (proteggendosi con la mascherina, ma lei era abbastanza tranquilla perché negativizzata da poche settimane). L’ultimo contatto risale al 6 dicembre. Frammenti di dialogo: “Papà, sai che giorno è oggi? È San Nicola. Come regalo voglio solo che tu guarisca”. “Sei splendido”. “No, sei tu splendido! Ti voglio bene papà!”

La prima foto con me

Che magnifici anni mi hai regalato, meraviglioso e generoso padre! Tu non sei mai stato tipo da complimenti e smancerie, ma almeno un paio di volte mi hai detto che con l’essere sempre lì con te e per te ti avevo allungato la vita, e che senza di me non avresti saputo come fare. La verità è che sei stato tu ad allungare la mia, e che sono io che senza di te non avrei saputo come fare. 

Il prossimo 26 maggio avresti compiuto 89 anni. E allora com’è che sono straziato come se avessi perso un ragazzino?  Eri così vispo, così arzillo, così lucido. Eri così sicuro di tornare a casa che mi davi istruzioni su questo e su quello. “Oh, per quando torno…”

Per farci soffrire il più possibile, il destino ti ha portato via, di botto, proprio nel momento in cui avevamo ricominciato a sperare, a illuderci. Eravamo stati pronti a perderti sei notti prima. Quella sera, fra il primo e il due dicembre, mi aveva chiamato l’anestesista di guardia dicendo che avevi avuto una crisi, che il livello di saturazione nel sangue era bassissimo, che non tolleravi e rifiutavi il casco per respirare, accettavi solo la maschera dell’ossigeno e pure quella malvolentieri, e che se l’ipossia fosse aumentata avrebbe potuto solo aiutarti con una piccola dose di morfina. Io lo avevo ringraziato (non prima di avergli chiesto un altro vano tentativo per convincerti a mettere quel casco), immaginando che almeno te ne saresti andato facendo dei bei sogni, magari chissà, ritornare in viaggio di nozze a Positano con la mamma, dentro oceani di luce e di amore. Passai la notte con le luci accese, a vegliarti a distanza, senza dormire un solo minuto, appuntandomi l’ora esatta del prodursi di determinati segni, come il canto funereo di un uccello notturno. E invece ce l’avevi fatta, e a partire dal giorno dopo avevi cominciato a riprenderti in maniera prodigiosa. Ogni mattina chiamavo presto in ortopedia per informarmi su come avevi passato la notte. 

Sapevo che a casa tenevi una sorta di diario di bordo in cui segnavi meticolosamente su dei blocchetti, con tanto di orario, le cose che succedevano nelle tue giornate, compreso l’inizio della pioggia o il ritorno di un pallido sole. Ho sempre rispettato la tua privacy e non sono mai andato a curiosare (e per ora continuo a non farlo: lo troverei troppo doloroso). Ho fatto un’eccezione per le ultime righe di quel 16 novembre, in cerca di qualche indizio, di qualche spiegazione. Le ultime parole erano: “Alle 14.30 Nicola parte per Gavirate per fare una bella camminata”. Già, proprio una bella camminata. Potrò mai perdonarmi?

Il mio vecchiettino nei nostri giorni felici al mare

Alla fine ti ha ucciso Sant’Ambrogio. Ero andato a dormire alle dieci e mezza di sera, distrutto, sicuro di farmi una corroborante, lunga dormita, rinfrancato e fiducioso, perché anche se la situazione era grave sembravi davvero potercela fare. Se non tu, mio highlander, chi altri? In corridoio avevo lasciato accesa una plafoniera propiziatoria, perché trovavo magico e protettivo il bianco arco di luce che disegnava, illusoriamente, fuori da una finestra della sala. E invece, nel dormiveglia, il momento più brutto della mia vita: lo squillare di quello stronzo telefono. Il cellulare, che per anni e anni avevo sempre tenuto spento, il cellulare che l’infermiera ha scelto di chiamare perché al numero di casa temeva avrebbe risposto “la moglie”, mentre invece avrei risposto sempre io… “Purtroppo le devo dire che suo padre è deceduto”. Almeno, a quanto pare, ti sei come addormentato, senza accorgerti e senza soffrire. Solo dieci minuti prima le avevi chiesto dei fazzolettini di carta. Tutto questo pochi minuti prima che finisse il 7 dicembre. La maledizione del numero 7 nelle date di morte di tutto il nostro ramo Pezzoli. Nel mio ingenuo ottimismo pensavo che nel tuo caso il 7 sarebbe stato contenuto nel 2027. Una ragionevole dilazione. E invece…

Fin troppo prevedibile, fin troppo scontato, ch’io mi metta a parlare della tortura degli oggetti, e dei ricordi da loro veicolati. Ma così è. La tua lente d’ingrandimento, con cui t’aiutavi quando l’occhietto superstite era stanco. Il tuo berretto verde scuro, che ti preoccupavi fosse andato perso sulla scena della caduta e invece avevo recuperato ed era qui che ti aspettava a casa. Il ventaglio viola della mamma, che con gioia usavo, come lo schiavo di un sultano, per darti sollievo dalla calura estiva che soffrivi più di me (l’espressione felice e beata che ti si dipingeva in volto, ma bastavano pochi secondi e poi dicevi “Bene così, grazie”). Le tue pipe, anche se da tanti anni non le fumavi più. Il piccolo gufo di legno che tenevi sul comodino. Il tuo pennello da barba. I guanti gialli con cui a 88 anni e mezzo pretendevi di essere sempre e solo tu a lavare i piatti (io facevo da mangiare, ma tu volevi apparecchiare, lavare i piatti e preparare il rito del caffè per due con la moka grande, così come ci tenevi a occuparti della raccolta differenziata e persino di stendere i panni dopo che io avevo fatto andare la lavatrice, caricata piano piano da te un indumento alla volta, come facendo l’appello).

A renderti unico erano anche i tuoi mantra rassicuranti, come li chiamavo io. Sotto la doccia ti si sentiva chiamare a raccolta i tuoi cugini della Mirabella, tutti scomparsi da tempo perché come età sembravano più zii che cugini (mio nonno era l’ultimo di sette fratelli): “E il Luisìn, e il Giuanìn, e il Pasqualìn, tutti tutti in compagnia…” Dopo un po’ che ripetevi ‘sta cosa entrava improvvisa una voce diversa, simpaticissima, da cartone animato, con la quale dicevi: “Luisìn basta! Basta coi Luisìtt!”, dopodiché smettevi.

Una foto che fa male: il lieto fine pareva certo

Un pensiero che mi consola è il rapporto sereno, tranquillo, disincantato, di piena accettazione che hai sempre avuto con la morte, con l’evidenza del fatto che prima o poi dobbiamo andarcene tutti, da qui. La volta che ci spaventasti con quel malore il giorno di Natale (un fatto di cinque anni fa) con due svenimenti in rapida successione, subito dopo, sdraiato su un divanetto in attesa dell’autolettiga, eri sorridente, quasi lieto, dicevi che se è ora è ora, e poi ti mettesti a intonare filastrocche dialettali, come un vecchio pellerossa che canta la propria nenia funebre, con la differenza che le nenie dei pellerossa sono tristi e lugubri, mentre le tue filastrocche erano briose e divertenti, un Pippirimerlo (se non addirittura un Ciao!) alla signora morte, vista non come interruzione o rottura ma come parte naturale della vita (la parola virte, unione di vita e morte, che io stesso inventai tanti anni fa?) Per non parlare di quando, nei tuoi foglietti promemoria, se ti segnavi un appuntamento per una visita medica da fare di lì a qualche mese aggiungevi sempre sotto, tra parentesi, “se campo” (e non era scaramanzia, ma lucido realismo), o di quando ripetevi, col tuo spirito un po’ macabro, che il tuo prossimo indirizzo sarebbe stato “il loculo 47”, accanto al 46 della mamma – non fosse che nel frattempo la burocrazia ti ha pure fatto lo scherzetto di rinumerarli, e il mitico 47 è diventato 139. Ma è sempre lì, di fianco alla tua Lidia, e lì ti ho deposto il 20 dicembre, dopo aver dato un ultimo bacio all’urna con le tue ceneri, dopo averla cullata stretta stretta fra le braccia per tutta la semplice ma toccante cerimonia privata (da persona specialissima quale eri, non hai voluto un vero e proprio funerale).

Col fatto che per via dello spietato protocollo covid non ti abbiamo potuto vedere dopo morto, neppure da lontano, è come se tu fossi solo misteriosamente svanito, partito per un lungo viaggio senza avvertire. E così, alla struggente tristezza della perdita, si aggiunge la struggente e torturante speranza di una permanenza (che nel mio cuore comunque sarà tale finché avrò a mia volta respiro), di un dolcissimo ritorno. Come cantavano gli Alphaville in “A victory of love”: Hoping for your/sweet, sweet/return (rintocco di campana su “return”).

Mi manchi, papà.

Tutte le sere, prima di ritirarti nella camera matrimoniale, dopo la buonanotte aggiungevi quell’altra tua parolina, “Nucét” (la traducevi con “nottina”, anzi “nottino”, al maschile, nel senso di una dolce confortante notte di sonno profondo e ricolmo di bei sogni). Probabilmente andrò avanti a sussurrare “Nucét”, ogni sera prima di addormentarmi, finché non sarà giunto il momento di seguirti.

Pierluigi Pezzoli 
26 maggio 1934 - 7 dicembre 2022