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martedì 21 marzo 2023

Il cinema italiano è vivo e ci emoziona – IL SIGNORE DELLE FORMICHE (con Leonardo Maltese, Luigi Lo Cascio, Elio Germano, regia di Gianni Amelio, 2022)


L’agnello giace teneramente abbracciato col lupo. L’agnello dorme, e sta facendo un bel sogno. L’agnello non sa che sarà mamma pecora a sbranarlo, annullarlo, distruggerlo.

Questa non è una (tardiva) recensione: è la mia dichiarazione d’amore per un film. Un film che mi ha scombussolato, rapito, indignato, intristito, esaltato, commosso, turbato nel profondo. Perché se la brutta notizia è che la narrativa italiana è moribonda (grandi editori che gareggiano nel maramaldeggiare, propinandoci autori ora di settimo ora di ottavo livello) quella buona è che il cinema italiano sembra più vivo che mai, e più che mai capace di regalarci forti emozioni. O almeno è quanto fa Gianni Amelio con questo suo capolavoro.

La storia fra Aldo Braibanti (un impeccabile Luigi Lo Cascio), scrittore, intellettuale eclettico, studioso della vita delle formiche, e il giovane Ettore Tagliaferri (uno splendido Leonardo Maltese), maggiorenne e innamoratissimo, parrebbe inattaccabile persino nella sordida italietta baciapile (o succhiabalaustre che dir si voglia) degli anni Sessanta (là fuori è già l’epoca dei Beatles, eppur non si direbbe: qui da noi, pur nel fermento di tante nuove idee, si respira un clima lugubre, plumbeo e intimidatorio da inquisizione bifolcoreazionaria). E invece verrà doppiamente distrutta, con vigliacca manovra a tenaglia, dalla famigliola del ragazzo (madre bigotta, fratello braibantiano deluso, padre relitto bellico). Dapprima col vergognoso crimine dell’internamento coatto in istituti infestati di suore e di pseudodottori dall’ingannevole vocetta melliflua, e col debole per pratiche nazistoidi come l’elettroshock, che devasteranno l’anima e la vita di Ettore. Dopodiché l’assassinio (perché di questo nella sostanza si tratta) verrà completato dal sistema giudiziario (che Braibanti definiva non a torto nei suoi scritti “grottesco”) che pur di persegui(ta)re l’omosessualità non esita ad appoggiarsi a un assurdo reato previsto dall’articolo 603 del codice fascista. Infatti, non potendo processare apertamente la “devianza” dei cosiddetti invertiti (che nei codici di allora non veniva mai neppure nominata, poiché si dava per scontato che ogni italiano fosse un machoide sturapassere) Aldo Braibanti, in un procedimento farsa, viene riconosciuto colpevole di “plagio” nel confronti del giovane Ettore, e condannato a nove anni di prigione (il pm, con la bava alla bocca, ne aveva chiesti quattordici, alla fine ne sconterà “soltanto” due per via dei suoi meriti di partigiano, altra ironia per uno che aveva combattuto le dittature e viene castigato e poi parzialmente graziato da una società ancora pervicacemente criptofascista – e lasciatemi dire che il “cripto” l’ho aggiunto per essere magnanimo: come non pensare alla celebre battuta di Ennio Flaiano, secondo cui, in Italia, i fascisti si dividono in fascisti e antifascisti?)

Gianni Amelio non ha paura (per fortuna!) di prendere posizione, né di caricare troppo i personaggi negativi. E ce ne sono a vagonate, a cominciare dalla Madre, che pur nella sua misera e ignorante mediocrità può ambire a far parte della top ten dei peggiori “cattivi” della storia del cinema. Trucemente impegnata nella missione di soffocamento/castrazione/uccisione del Figlio (ben simboleggiati dall’imposizione degli studi di medicina a un ragazzo che vorrebbe diventare un pittore – a quanti è successo? a quanti ancora continua e continuerà a succedere?), non le sono però secondi il fratello represso e vendicativo, la suora avida e inconsapevolmente anticrista, che brandisce la croce come fosse una scimitarra antiamore, disonestamente ignara, come tanti omofobi sedicenti “cristiani”, del fatto che Gesù amava Giovanni, e poi l’albergatrice infame, il medicastro fulminatore, il giudice viscido e iniquo, il pubblico ministero caricaturalmente razzista, l’avvocato inetto, il direttore di giornale pavido lecchino di cinghiali sovietici…

Fin dalla sua prima apparizione, lo spettatore più sensibile non può mancare di lanciare improperi alla Madre. Anch’io l’ho insultata da subito a voce alta, incapace di trattenermi. Questo fa di me uno spettatore infantile, sempliciotto e manipolabile? Può darsi. Ma se è vero che per farsi creatore di mondi nuovi l’uomo deve diventare prima cammello, poi leone e infine bambino (le tre metamorfosi di Friedrich Nietzsche, citate dal Braibanti in una delle tante scene in cui l’Amante del Discepolo è anche Maestro dell’Amato) io credo che ciò debba valere a maggior ragione per chi di tali mondi voglia essere fruitore nel modo più totalizzante, più onesto, più generoso, più appassionato e più fecondo. E mi viene da dire che forse il più infantile dei fruitori di arte è proprio lo spettatore ideale di film: stupito ma non stupido, volutamente disarmato ma non sprovveduto, infatuato ma non fottuto, disposto a lasciarsi trasportare da situazioni che sì, sembrano fatte apposta per estorcere emozioni (la meraviglia di un amore clandestino e contrastato, l’amara tragedia del trionfo dei “cattivi” su tale amore, trionfo che però non potrà cancellare quei mesi, o giorni, o attimi che di sicuro contano mille e mille volte più delle intere vite messe assieme dei tanti cessi umani antagonisti). Tutto il resto è critica, nella sua forma più saccente, sterile e ostile.

Il film comincia come un colpo contundente: se l’esterno notte romano in cui i protagonisti della storia si recitano l’un l’altro poesie d’amore poteva sembrarci l’inizio di un idillio, ne costituiva invece l’apice, un apice quasi coincidente con la fine, perché nella spietata, atroce, irreparabile sequenza successiva l’agnello verrà strappato con violenza dal nido d’amore del lupo. In seguito ci viene restituito piano piano il respiro, mostrandoci il prologo della storia, attorno al laboratorio artistico-culturale messo su dal Braibanti nel bel mezzo della campagna emiliana. Ma quando poi vediamo i due sbarcare nella (in apparenza) più accogliente Roma, a quel punto sappiamo già che trattasi di felicità con countdown incorporato, e siamo quasi avidi e gelosi di ogni attimo che potranno vivere insieme prima di precipitare per mano altrui nella rovina e nel disastro.

Tra i pochi a interessarsi della vicenda e a prendere a cuore la sorte del Braibanti ci sono un giornalista (Elio Germano), omosessuale nascosto e impaurito ma non represso, e una sua cugina attivista, ben contenta di sacrificare il legame nascente (scampato pericolo?) con un cretino del sud convinto che “per gli invertiti le strade sono due: o si curano o si ammazzano”.

Scena più struggente (ancor più del fugace reincontro/addio fra Ettore e Aldo subito dopo il funerale della madre di quest’ultimo – altro bel personaggio: sofferente ma serena, dignitosa, coraggiosa) è l’inattesa testimonianza di Ettore verso la fine del processo. Devastato nel corpo e nello spirito, apparizione penosa e quasi spettrale, il ragazzo è però lucidissimo nel difendere Aldo dall’imbecillità delle accuse. Una difesa che il diabolico pm ritorcerà contro l’imputato, facendola apparire come ennesima riprova del pesante e indelebile plagio che il giovane amante avrebbe subito.

In fin dei conti, un film che ti fa rimanere male. Ma è un male di cui non si può non essere affettuosamente e orgogliosamente grati al regista e agli attori tutti.