"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

giovedì 23 dicembre 2010

Per un sereno Solstizio d'Inverno, o qualsiasi altra cosa significhi per voi e per il vostro cuore. E per un felice 2011.




RACCONTO DI NATALE (1990)



Sin da piccolissimo fui sensibile al fascino della relatività del tempo.
Anzi, a essere preciso, ben prima di sapere dell’esistenza di tale concetto e di saperlo nominare, già vivevo attanagliato dall’istintiva e indicibile paura che voragini da film di fantascienza-horror potessero scatenarsi a folate improvvise, con repentine fratture millenarie riguardanti stanze dello stesso palazzo e vite dei loro occupanti, separando per sempre i bambini dall’affetto delle madri, o dal senso di sicurezza e calda protezione che potevano infondere parenti e visi conosciuti.

Durante il pranzo di Natale, per il quale era consolidata tradizione di famiglia riunirci nella magione della nonna paterna, avveniva quasi sempre ch’io mi assentassi qualche minuto per scendere a casa mia, che distava poche decine di metri, a prendere qualche nuovo gioco, ricevuto in regalo quello stesso magico mattino.

Al ritorno, cominciando a salire le due rampe di scale oscure della grande, antica casa della capostipite, una terrificante immagine mi raggelava, andandosi a conficcare tra le pareti del mio cervello. Temevo di salire quei gradini, di aprire quella porta, e poi la seconda porta, e di trovare una stanza piena di scheletri. Soltanto scheletri – tanti orridi, spaventosi, ghignanti, bianchissimi scheletri quanti erano i miei cari che avevo lasciato poco prima, immersi nell’intimo tepore di una festa felice. Mentre per me non erano trascorsi che pochi minuti, per loro erano passati come minimo cent’anni!
E tremavo al solo pensiero del grido orrorifico e inumano che si sarebbe levato dalla mia gola e dal mio disperato raccapriccio.

Anche adesso che ho quattordicianni e sono un ometto, o almeno così dice la nonna, salendo gli ultimi gradini non posso evitare di pensare a quell’assurda fantasia che mi perseguitava da bambino. Oggi più che mai. Sarà il gelido sussurro degli spifferi, saranno queste ombre arabescate, saranno gli strambi oggetti scultorei che popolano, ogni anno più numerosi, la tetra anticamera fra il primo e il secondo ingresso, fatto sta che oggi esito più a lungo del solito davanti alla porta chiusa, quasi gemendo nel buio, divorato da improvviso sgomento, uno sgomento che non mi pare più semplice fantasia, ma vera e propria premonizione avvertita e sofferta coi pori della pelle, e coi muscoli e lo stomaco e le profondità di tutto il corpo.

Apro la porta, pietrificato da questi pensieri… (Se sapessero, chissà le risate che si farebbero alle mie spalle.)
Ma no, eccoli tutti lì, naturalmente, eccoli tutti lì come li avevo lasciati. I miei genitori e mio fratello, e lo zio che sta riaccendendo il suo sigaro, le zie, la nonna, nella luce dei candelabri ardenti e del fuoco nel camino, davanti a loro le tazzine da caffè e le bottiglie di amari e grappe, ciò resta del pandoro e la frutta secca nelle ceste e i mandaranci.
Ma perché, perché adesso mi guardano inorriditi, perché sono loro a lanciare, uno a uno, dopo avermi veduto ritto sulla soglia, quelle acute grida di terrore?


BUONE FESTE !!!!


lunedì 20 dicembre 2010

SQHUOLASTRISSIE - terza degustazione!


















Stavolta, sperando di farvi piacere, vi ho servito una degustazione DOPPIA, come piccolo regalo per le festività invernali. Ricordo a chi fosse in difficoltà a causa del formato di questa versione foto-casereccia, che cliccandoci sopra si ingrandiscono. Se vi siete persi le altre due puntate di questi miei reperti liceali (dove ci sono molte delle "strissie" che considero migliori) potrete trovarle nell'archivio 2010 aprendo i mesi di Aprile e Giugno.





martedì 14 dicembre 2010

UN BACIO: il piccolo struggente capolavoro di Ivan Cotroneo



Ivan Cotroneo
UN BACIO
Bompiani, pagg 91 € 9,50
voto: 9+

Oggi voglio parlarvi di un libriccino prezioso, struggente, magnifico, davvero imperdibile. Già: perché una volta tanto, nel deprimente panorama italico, posso finalmente usare la parola libriccino nel senso delle dimensioni (si legge in un soffio, ma è un soffio al cuore capace di rimescolarti dentro), e non la parola libercolo nel senso del contenuto. Perché ogni tanto anche nel nostro letamaio odierno spuntano dei fiori. E che fiori.
Questa piccola rosa nera regalataci da Ivan s’ispira liberamente a un fatto di cronaca: l’uccisione con un colpo di pistola di un liceale americano, il quindicenne Larry King, per mano di un compagno quattordicenne che la vittima aveva solo osato corteggiare.
L’autore riadatta la tragedia alla provincia italiana, e lo fa nel miglior modo possibile, attraverso tre punti di vista, una staffetta di tre voci al tempo stesso sussurrate e sconvolgenti, come urla del silenzio capaci di trattenersi sotto le righe nel loro dire “ascoltateci”, senza per questo colpirci di meno o commuoverci di meno. Anzi, semmai, pugnalandoci al petto ancora di più. Tutte e tre.
C’è la voce delicatamente disperata di Lorenzo, la vittima, il ragazzino Diverso, Lorenzo tenero, spaesato e maltrattato (ma anche protetto, purtroppo non abbastanza, da due splendidi genitori adottivi e da un’insegnante d’italiano “illuminata”, contrapposta a un prof d’inglese scimmiesco e idiota capace solo di sbatterlo in presidenza per l’abbigliamento o per le unghie colorate). Lorenzo preso in giro e picchiato, Lorenzo isolato, Lorenzo che si ritrova foglietti odiosi attaccati allo zaino, Lorenzo che fa fatica a trovare il coraggio di regalare la felpa che ha comprato per Natale al compagno che gli piace perché “aveva il sorriso”, anche se a lui non sorride mai, Lorenzo che riuscirà a dargli un piccolo, unico bacio, un bacio nel buio e senza testimoni, ma che finirà lo stesso per costargli la vita.
E poi la voce di Elena, l’insegnante illuminata, che forse è illuminata proprio perché nasconde a sua volta un segreto simile, l’amore impossibile e indicibile per un’ex allieva, una ragazza così imbarazzata al solo intuire, al solo sospettare, ciò che anima la professoressa, da barricarsi per difesa contro di lei nell’abbrutente fogna convenzionale d’un matrimonio-maternità precoce, infelice e annichilente in cui è andata a seppellirsi troppo presto: un marito stronzo e violento è sempre meglio che sospettarsi lesbica.
E infine Antonio, il carnefice a sua volta vittima, vittima dei gretti pregiudizi e della violenta ignoranza chiamata omofobia, tragica imbecillità che ovunque nel mondo dilaga, ma che nella lobotomizzata Vatikalia, non dimentichiamolo, è veicolata addirittura da peti (coi tacchi) istituzionali e da qualche raglio pontificio; Antonio emotivamente violentato, sabotato e bacato dalla bestialità del padre e dal bieco conformismo che lo circonda, Antonio che non potrà perdonare il turbamento di aver involontariamente visualizzato gli occhi di Lorenzo in un flash di autoerotismo, che non potrà perdonargli il regalo e la dichiarazione gridata al campo sportivo, che non potrà perdonargli quel bacio (“Ho pensato che forse già lo sapevano tutti quanti. Forse adesso non potevo più giocare a pallone”), perché il mondo di merda in cui vive, e dal quale mendica accettazione e approvazione, non glielo permetterebbe mai (perché ricordiamoci che è quasi sempre questo il meccanismo psicologico dell’omofobia: il terrore di poter essere anche noi qualcosa che il gregge-melma condannerebbe).
Una volta tanto, buone notizie narrative anche dalla grande editoria italiana (non immaginate quanto sia felice di poterlo dire, visto che quando ne parlo male rischio di passare per rincoglionito e invidioso), una volta tanto il parlato, il pensato di due ragazzini reso in modo magistrale, verosimile ma non stupido, non da pupazzo o da figurina bidimensionale, e senza concessioni a gerghi stucchevoli o banalità mocciane, insomma reso, come amo spesso dire, da uno Scrittore e non da un magnetofono.
“Se non riusciamo a fare delle nostre vite” ammoniva Raimon Panikkar, “un delicato capolavoro, allora c’è qualcosa che non va”.
Ecco, quello di Ivan Cotroneo è proprio questo: un delicato capolavoro, a metà fra la poesia e il manufatto di orologeria-gioielleria: non una parola di troppo, non una virgola fuori posto! E quindi merita di essere letto. Sarebbe un peccato perderselo. Ma sarebbe soprattutto un peccato non farlo leggere ai vostri amici e parenti più giovani.
Parola di Scriba.


venerdì 10 dicembre 2010

RACCOLTA DIFFERENZIATA (17) - vecchi racconti inediti del Nick



DISPONI


“Non sparire”.
(Evtusenko, Poesie d’amore)



E così lei sarà la tua prima volta cash, e forse avrà deciso lei quando venirti incontro, anche se tu, questo, non lo saprai mai.
Finalmente con un trucco o una scusa, o perché gli altri saranno andati a letto troppo presto, finalmente riuscirai a restare solo, dopo la solita serata fumosa e funesta dentro quei pub di riviera che sai a memoria, quasi quanto i discorsi a nastro degli amici che vanno e rivanno, che rassegnato ascolti da anni bevendo la tua Guinnes, ma non vi contribuisci neanche più. Finalmente solo, sulla tua scheggia nera metallizzata, stavolta non te ne andrai a dormire, come un bravo bambino, coi genitori alla casa per vacanzieri in affitto, ma darai inizio, senza averlo veramente deciso, trasportato da un istinto, una disperazione o un solletico, alla tua notte raminga lungo la via Emilia, alla tua caccia solitaria e vagabonda a spiare le prostitute nelle piazzole e nei parcheggi deserti e ai rondò, quegli stessi corpi umani nel buio che erano stati solo sottofondo muto e inanimato e sfiorato durante decine di altre notti al mare, quelle stesse ragazze che andavi a sbirciare per scherzo quando facevate i puttan tour, (la volta che l’impareggiabile M., seduto alla tua destra, riuscì a rimanere serio nel replicare a una racchia che aveva appena detto “Zinquenta di bocca e di tutto”: “Le faremo sapere, signorina”) e adesso spererai siano davvero andati tutti a letto gli amici, perché questo adesso sarai tu, maschio in caccia più emozionato che eccitato, e il batticuore salirà forte, e sarai ora tu, proprio tu, uno di quelli che rallentano di continuo e intralciano il traffico, il traffico degli uomini veri che le ragazze se le vanno a cercare laggiù dove i fari allo iodio delle discoteche s’innalzano dritti nella pianura e li chiamano, come le sirene delle fabbriche chiamano gli operai al lavhorror, e forse tenteranno ancora una volta inutilmente di chiamare anche te, quei loro mazzi di coni di luce che oscillano e s’intrecciano alti nel cielo nero allarmando la notte dei normali. Questo adesso sarai tu, e ti sentirai già in colpa, e non vorrai essere sorpreso con la tua pochezza in flagrante da nessuno che conosci.
Tu e la tua scheggia nera metallizzata, e i tuoi desideri e le tue ansie e paure, in questo scenario silenzioso e disteso, entrerete e uscirete di continuo da mille quadri oscuri che non saprai, che con le loro crude sfumature ti metteranno di fronte al tuo inquieto non saper vivere.
Ma stavolta sarai deciso, e tutti i muscoli e il sangue del corpo lo saranno più di te, t’impediranno di ripensarci, non ti permetteranno, stavolta, di essere timido e di avere paura, al punto che quando avrai deciso di arrenderti, di rinunciare, e sarai di nuovo diretto da bravo bambino verso la casa per vacanzieri in affitto, la tua scheggia nera metallizzata compirà un’inversione perigliosa e stridente da telefilm poliziesco, e neanche tu saprai, in quel momento, chi diavolo ci sarà mai stato, al volante.
Risoluto a andare fino in fondo, tornerai all’incrocio dopo il Luna Park dove avevi intravisto la selvatica in costume di leopardo. Ma lei non sarà più lì. Risbucherai allora sulla via Emilia, allo svincolo in cui avevi adocchiato la stangona bionda e la mora. Ci saranno ancora, rallenterai, ma da vicino saranno due cozze inguardabili, due sculture di Modigliani dalla faccia oblunga e angosciante. Scivolerai via.
Continuerai a vagare e a cercare. Con solo il tuo mangianastri a tenerti compagnia nella sua remota fosforescenza verde di sogno rarefatto.

Datemi datemi, dirai, pregherai, strade buie e selvagge di questa notte di Romagna, datemi vi prego, allora invocherai, una prostituta con la faccia da troia! Basta, invocherai, con queste disgraziate che ti fan sentire in colpa soltanto a vederle, queste facce buone tristi e miti e rassegnate da misere schiave, datemi una porca troia vera, come di certo ce ne sono, o almeno datemi mie buone strade tentatrici e complici, vi prego datemi una ragazza carina, non queste racchione dell’est con le facce scolpite dal maestro Modigliani!

A lungo ne cercherai una carina, o almeno una con la faccia da troia. Mica facile. Con la faccia da troia come certe che in città intercetti arroganti sulle loro camionette da cento milioni, intestate alla ditta del marito posizionato, che te le inculeresti per sfregio – la vera troia è quella che sa sposarsi bene. Come certe vigilesse, che ti castigano frementi di sadismo perché te ne andavi a cinquantotto all’ora.
Ma con la faccia da troia non ne troverai nessuna, di puttana.
In compenso, nel cuore della notte e alla fine della Romagna, poco prima di arrenderti, ne scorgerai una bellissima, ma carina da impazzire, così carina da non sembrare vera, carina come fosse stata messa lì per sbaglio o per scherzo, così carina da aver paura che spunti un altro, magari in Ferrari, e te la rubi.
Poserai lo sguardo sui suoi occhi al rondò, sarà la più bella che tu abbia mai visto, un misto di mulatta cubana e di nera nigeriana, e nel frattempo la tua compilation, dispettosa, sarà giunta proprio all’unica canzone lenta e dolcissima delle diciotto che ci saranno, e in quell’atmosfera d’incanto irreale abbasserai il finestrino, e pieno di tenerezza e goffaggine le chiederai nella notte: «Ti va di farmi compagnia?»
Lei esiterà, disorientata da quell’invito mellifluo enigmatico al posto del solito: “Quanto?”
Poi, il “quanto” naturalmente ci sarà, e lei dirà cinquantamila.
Aprirai la portiera di destra, e quell’angelo col volto da copertina che non dovrebbe stare lì salirà, mentre sfumerà nella fosforescenza la canzone lenta e dolcissima, rimpiazzata da Ma Baker dei Boney M.

Ti guiderà fra viuzze infrattate, dicendo più volte “destra” “sinistra” come un navigatore preciso e incalzante, masticando la sua gomma e muovendosi al ritmo della musica e canticchiando Ma Baker come non fosse una canzone dei tempi di sua nonna, e lei ti farà delle domande, come se gl’importasse di te, e invece sarà solo un modo, ripenserai dopo, per farti parlare, capire se sei fatto o ubriaco o non ci stai con la testa, e tu non saprai proprio perché, ma risponderai col tuo vero nome, vera età, vera provenienza, vero tutto. Le chiederai il suo, di nome, e lei te ne dirà uno abbastanza deludente: «Jessica.» Ti consolerai pensando che di sicuro è inventato, un angelo simile non può chiamarsi semplicemente Jessica.
Tu, con a bordo una puttana. Le sue gambe di carne seducente a pochi centimetri da te. Non ti sembrerà del tutto vero. Non ti sembrerà una cosa possibile.

A un certo punto lei farà un cenno a qualcuno, a un incrocio, passando, come un segnale. Una collega, o una vedetta. Qualcosa ti dirà che ti hanno preso la targa. Giusto così, penserai, ci sono troppi violenti e maniaci di merda, in giro nella notte selvaggia, e se io ferissi anche solo con un’unghia questa fata che mi è apparsa nella notte, penserai, meriterei di venire squartato, e gettato in una fogna.
A metà di una stradina di campagna, ti farà cenno di fermare. Ti dirà di spegnere le luci. Anche lo stereo? Anche lo stereo. Sentirai di dover farfugliare che è la prima volta che lo fai così, che sei triste e confuso, che poi sarà la vera verità, che tu sappia. «I soldi», ti dirà. Tu le metterai in mano il cinquantone. Lei con mossa svelta ribalterà il suo sedile. Tu, più che altro per imitazione, farai lo stesso col tuo, ma per il momento resterete seduti a guardarvi, come due ragazzini impacciati che non lo hanno fatto mai.
Poi: «Disponi», ti dirà Jessica.
E tu: «Ti aiuto», le sussurrerai, e le abbasserai piano una spallina, e lei ti sorriderà, e per qualcosa di più lungo di un secondo l’intimità si farà dolce, e ti dimenticherai di tutto, ci sarà solo il profumo buono della sua pelle, e ti sembrerà di stare lì appartato con la tua ragazza, con l’amore bello e vero della tua vita. Ricorderai di aver letto da qualche parte che non sempre ci si avvicina alla tenerezza unendosi all’altro – spesso la tenerezza è lo spazio che ci divide. Vicinissimo a lei, le leccherai appena la spalla e poi il collo. Poi farai per baciarle un capezzolo, e lei ti respingerà.
Quasi infastidita ripeterà, meccanicamente, quel suo “Disponi”, e allora comincerai a sospettare che non significhi disponi di me come tu vuoi, fai tutto quello che ti pare del mio corpo e della mia pelle, comincerai a sospettare che “Disponi” voglia dire soltanto e più semplicemente: “Tiralo fuori. E sbrigati.”
Tu, disperato, le dirai che vuoi qualcosa di dolce, che da lei vuoi baci e carezze, non sarebbe stato così, penserai, se avesse avuto la faccia da troia, ma lei è così bella e adorabile… Lei ti spiegherà che con cinquanta si paga un trattamento veloce, tu balbetterai che ne hai solo altri dieci, e per lei sarà come aver detto che hai mezzo centesimo.
Avrai un’idea. La esporrai goffamente. Facciamo così, le dirai, un po’ di baci e di coccole, e poi, soltanto di bocca. Va bene?
«Okay» dirà Jessica, spegnendosi in una smorfia, come a dire, quasi delusa, come tu vuoi. Se ti accontenti di così poco… Ma non avrà capito nulla, o nulla fingerà d’aver capito, perché di nuovo, subito, rimettendosi a posto la spallina, con freddezza intimerà: «Disponi.»
Allora, tu, disporrai.
E disponendolo ti dirai, porco diavolo, a queste qui va bene tutto tutto, ma le perversioni sentimentali, cocco mio, quelle, no. Le carezze, quelle te le devi scordare.
Poi lei si darà da fare, ma un preservativo e due fazzoletti di carta renderanno la cosa ancor più deludente, squallida, grottesca, irreale. Nonostante questo ti abbandonerai, le carezzerai la nuca e la schiena, starai in silenzio sino al momento di due “sì” a malapena sussurrati e già tristi.
Nel rimetterti a posto, considererai la sua umiliazione, grande quasi quanto la tua, e le dirai Adesso mi dispiace, di avertelo fatto fare. E lei sarà sempre più perplessa per l’idiota che sei. Sbatterà fuori lo schifo nel viottolo privato, regalo per chi abita lì, tu riaccenderai lo stereo, lei ricomincerà a canticchiare Ma Baker come non fosse una canzone dei tempi di sua nonna.
Al rondò non la farai scendere subito, le chiederai un bacio, a Jessica, che dichiara venticinque anni e forse ne ha sedici, che incredibilmente nel buio non avrai neanche deciso se mulatta cubana o bambina nigeriana, saprai solo che ti sei innamorato di lei e dell’impossibilità di amarla e di esserne amato. Vi sfiorerete una guancia in un bacio non dato del tutto, le dirai addio, e buona fortuna. Che idiota: buona fortuna.
T’immetterai sulla via Emilia con la tua scheggia nera metallizzata, sotto gli sguardi di tante sue compagne che l’aspettavano in gruppo, al buio, di là della strada, come se loro avessero finito, e Jessica, l’avessi avuta fuori orario. Ti lascerai alle spalle il rondò e quell’angelo scuro. Ti sentirai una specie di verme. Ma non un verme moralista. Ti spiacerà di non averla potuta amare di più, e se amarla di più era avere un milione e pagarla per tutta la notte, per poi magari portarla al cinema, o in riva al mare, o in qualche osteria sulle colline a bere sangiovese, ti spiacerà di non aver avuto il milione, e però lo sai benissimo che in quel caso ti saresti sentito ancora più verme, non un verme moralista, no, ti sarebbe spiaciuto di non avere un miliardo, per chiederle di fuggire, e venire a vivere con te.
Non dimenticherai mai quanto t’è piaciuto il suo viso nel posare lo sguardo nei suoi occhi al rondò, non dimenticherai mai che in quel momento la compilation dispettosa era giunta proprio all’unica canzone lenta e dolcissima delle diciotto che c’erano, e che quella più realistica, Ma Baker, che parla di una negra disperata che si dà alle rapine, era partita solo dopo.
Forse, “disponi” non era la prima cosa che avevi capito, ma neanche la seconda.
“Disponi” era disponi al meglio della tua vita come credi, seguendo solo la tua anima e il tuo cuore, e rispondendo alle cose che ti chiamano nel momento in cui ti chiamano.
Forse non c’era bisogno, di avere addirittura un miliardo.
Ti ci vorrà un anno, per capirlo.
L’estate dopo, ritornerai otto volte alla stessa ora alla stessa rotonda. Poi altre volte a ore diverse. Altre volte disperato a ore varie in altri posti lì attorno e poi sempre più lontano a cercarla disperato.
Lei non sarà più lì.


mercoledì 8 dicembre 2010

Poesie del poeta pentito (2)

A grande richiesta, un nuovo miniassaggio dei miei versi giovanili.



COLLAGE-VOYAGE


AUF-ZU
Tutùcciuciùf
Dà fastidio se fumo?
OPEN-CLOSED
"Ti voglio bene ma non ti posso amare"
E' PERICOLOSO SPORGERSI
Biglietti, prego
Hey papà, si vede il mare
OUVERT-FERME'
"Nick è solo"
Mio dolce
Impossibile
Amore
(APERTO-CHIUSO)
Lo capisci
Che questo
E' un addio?
NE TIRER LA POIGNEE
QU'EN CAS DE DANGER





ALBA D'ASFALTO
(Surrendermerde)


In mezzo a prati falciati di fresco
Sorseggia un caffè il Generale Cambronne

Fra papaveri e sogni e rugiada il dio Thor
Ripercuote il suo amore mai stanco

Scandinavian Container
Nei pressi di me





NONSTOP JULY


Camminerò
Fra sentieri infiniti di stelle
Come musica in spiaggia d'estate
Nella sabbia c'è l'eco del calciomercato
Nelle onde un inverno che ho già dimenticato
Mai più freddo né angoscia né pianto
Ma quando? Ma quando? Ma quando?


domenica 5 dicembre 2010

I marinai si sono impadroniti della nave, e ballano coi topi in attesa di affondare




Charles Bukowski
IL CAPITANO È FUORI A PRANZO
Universale Economica Feltrinelli
Pagg 138 € 6.50
Voto: 8

Pag 7
Ottima giornata alle corse, maledettamente vicino a fare il colpaccio.
Eppure, anche quando si vince, è noioso. Quei trenta minuti di attesa fra una corsa e l’altra, la vita ti sgocciola via nello spazio. Tutti sembrano grigi, calpestati. E io sto lì con loro. Ma dove altro potrei andare? In un museo d’arte? Dovrei starmene in casa tutto il giorno a fare lo scrittore? Potrei mettermi una sciarpetta. Mi ricordo quel poeta, che nei suoi vagabondaggi passava sempre da queste parti. Camicia senza bottoni, vomito sui pantaloni, capelli negli occhi, stringhe slacciate, però aveva quella lunga sciarpa sempre pulitissima. Era quello il segnale dell’essere un poeta. Le sue opere? Be’, lasciamo perdere…

Pag 13
La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte. Non fanno onore alla propria vita, la pisciano via. La cagano fuori. Muti idioti. Troppo presi a scopare, film, soldi, famiglia, scopare. Hanno la testa piena di ovatta. Mandano giù Dio senza pensare, mandano giù la patria senza pensare. Dopo un po’ dimenticano anche come si fa a pensare, lasciano che siano gli altri a pensare per loro. (…) Per molti la morte è una formalità. C’è rimasto ben poco che possa morire.

Pag 26
Non c’è niente che possa impedire a un uomo di scrivere, tranne se stesso. Se uno desidera scrivere, lo farà. I rifiuti e il ridicolo serviranno solo a rafforzarlo. E più lo ostacolano, più forte diventa, come una massa d’acqua che preme contro una diga. Scrivendo non si perde mai; ti fa ridere le dita dei piedi mentre dormi, ti fa muovere come una tigre, ti accende l’occhio e ti mette faccia a faccia con la Morte. Morirai guerriero, sarai onorato all’inferno. Fortuna della parola. Vai, lanciala. Sii il Buffone delle Tenebre. È divertente. È divertente. Un’altra riga ancora…

Pag 47
Indubbiamente alle corse c’è gente strana. C’è un tipo che sta lì quasi tutti i giorni. Si direbbe che non vinca mai. Dopo ogni corsa urla sgomento contro il cavallo che ha vinto. “PEZZO DI MERDA!” Dopo di che va avanti a sbraitare che quel cavallo non avrebbe mai dovuto vincere. Per cinque minuti buoni. (…) E non fatelo perdere al fotofinish. Allora sì che se la prende. “ALLA FACCIA DI CAZZO DI DIO!”

Pag 135
Perché le persone interessanti sono così poche? Con tanti milioni, perché sono così poche? Dobbiamo continuare a vivere con questa specie noiosa e monotona? Sembra che il loro unico gesto sia la Violenza. In quello sono bravissimi. Brillano. Luccicore di merda, che ci ammorba ogni possibilità. Il problema è che devo continuare a interagire con loro. Almeno se voglio che le luci continuino ad accendersi, che mi riparino il computer, se voglio tirare lo scarico del cesso, se devo comprare le gomme nuove, farmi togliere un dente o farmi tagliare la pancia, devo continuare a interagire. Ho bisogno di quegli stronzi per le piccole necessità, anche se loro, in sé, mi fanno inorridire. E inorridire è una parola gentile.

Pag 137
Be’, sì. Come scrittore faccio fatica a leggere quello che scrivono gli altri. Semplicemente non fa per me. Tanto per incominciare non sanno buttare giù una riga, un paragrafo. Basta guardare la pagina da lontano, ha un aspetto noioso. Quando poi la prendi in mano, è peggio che noiosa. Non c’è ritmo. Non c’è niente di nuovo o di fresco. Non c’è gioco, non c’è fuoco, non c’è sugo. Che cosa fanno? Sembra un lavoraccio. Chiaro che poi molti scrittori dicano che scrivere per loro è una sofferenza. Lo comprendo.
A volte, quando la scrittura non carbura, ho provato qualcosa di diverso. Ho versato il vino sulle pagine, le ho avvicinate a un fiammifero e ci ho fatto dei buchi. “Che cosa stai FACENDO lì dentro? Sento puzza di fumo!”
“No, tesoro, tutto bene, tutto bene…”
Una volta ha preso fuoco il cestino e sono corso fuori sul balcone, ci ho versato sopra della birra.

Pag 138
Mi ricordo che un giorno ricevetti una lettera furibonda da un tale il quale sosteneva che non avevo diritto di dire che Shakespeare non mi piace. Troppi giovani mi avrebbero creduto senza nemmeno darsi la pena di leggere Shakespeare. Non avevo diritto di affermare una cosa simile. E così via. Non gli ho mai risposto. Lo faccio adesso.
Fottiti, amico. E non mi piace nemmeno Tolstoj!


Be’, se proprio per Natale non volete regalare Tutta colpa di Tondelli dello Zio Nick (:D), perché magari tutti i vostri amici lo hanno già letto, allora vi consiglio questo prezioso libriccino dello Zio Buk, molto diverso dagli altri suoi: è un diario degli ultimi mesi, una sorta di Testamento di uno dei più grandiosi outsider della Scrittura. Fossi in voi lo leggerei.
Parola di Scriba.



lunedì 22 novembre 2010

Assaggi di romanzo (7)




da il taccuino rosso di wolfsburg
prima parte del capitolo 25



Dalla Marilù del bosco a portare il latte, nella speranza di trovare il coraggio di baciare ‘sta benedetta Cristina, di sfiorare con le labbra le sue guance di pesca, presi ad andarci tutte le sere. Ogni volta era una storia in tre atti. Il primo atto, l’andata, era allegro e spensierato. Il terzo, il ritorno, era l’atto dei batticuori e dei patimenti d’amore e della rabbia sorda per la mia vigliaccheria. L’atto centrale, più che il latte e il signor Sandro e la Marilù del bosco, riguardava, di nuovo, l’intontita e silente adorazione di quella meraviglia che era il televisore a colori. Certe volte, affacciandomi appena alla soglia del salotto, mi capitava di sbirciarlo, con rispetto e deferente stupore, anche spento.
A casa mi accontentavo dei fumetti. Prima dei Tex la mia passione erano stati i Topolini. Ma anche di quelli non è che me ne comprassero tanti. Mi toccava prenderli a prestito dalla biscugina Violetta di Cuvio e dimenticarmi di restituirli. Mi approvvigionavo da questa cugina di secondo o terzo grado molto più grande di me che ce li aveva proprio tutti, e poi soffrivo di amnesie restitutive. Aveva anche quelli con le medagliette metalliche dell’Operazione Quack, però le medagliette non c’era verso di ranzarle via perché la grandona le teneva sotto chiave. Il mio preferito era Paperinìk. Anch’io mi vedevo come un eroe mascherato, quando espropriavo i Topolini. Corradinìk alla riscossa! Ma lei era molto stronza e possessiva e non gliene sfuggiva uno. Doveva tenere uno schedario su cui annotava i numeri di serie. Martedì 23 maggio. Topolini 672, 894 e 895. Se doveva assentarsi si cautelava contro le mie incursioni mobilitando una specie di prozia zoppa che viveva con loro, e m’impediva di prenderne altri se non restituivo i precedenti. La prozia zoppa non li chiamava giornalini. Li chiamava “i libri della Violetta”. Non capiva un put, quella lì. Probabilmente non capiva neanche di essere zoppa e pensava che gli strani fossero gli altri. Oppure veniva lei, la Violetta di Cuvio, in missione a cercarmeli a casa, e io non riuscivo mai a nasconderli abbastanza bene. Avrebbe dovuto vergognarsi, quella grandona.

Gli Stevanato non avevano il telefono. Ogni tanto la Beatrice veniva da noi per chiamare nel Veneto. Telefonava in piedi per non disturbare la sedia o non sfondarla, e ci faceva sbellicare coi suoi intercalari e i suoi ondeggiamenti d’anca. Per un po’ credemmo che la parente con cui parlava si chiamasse Imelda, poiché sembrava ripetere di continuo “Va, Imelda, va Imelda”, ma poi se prestavi maggior attenzione scoprivi che l’intercalare telefonico era “Va’ in merda”, detto però con affetto.
Dopo ci lasciava duecento lire sul tavolino del telefono.
La Marilù del bosco ne aveva uno a muro in fondo al corridoio, ma io non l’avevo mai vista telefonare e sospettavo fosse finto. Una sera aprimmo la porta che non era mai chiusa a chiave, e la Marilù del bosco, di solito la donnona più tranquilla e rassicurante del mondo, era lì in fondo al corridoio che sbraitava. Stava parlando con la sorella di Cuveglio, così ci parve di capire, e si lamentava a gran voce. Nel corridoio rimbombavano parole volgari che io avevo creduto non conoscesse nemmeno. Né lei né il corridoio. Ce l’aveva con la farmacista di Cuviago. È mai possibile, si lamentava, che tutte le volte uno debba dire davanti a quindas persone che la pomata gli serve perché ghe brusa el cü? Ebbene sì, santa Madonna, el me brusa ‘l cü! E alùra? Secondo me, si lamentava, quelle stronze delle farmaciste lo fanno apposta. Succede ogni volta, sempre, mica dimà a Cüviàgg, m’è succedü, anca a Shtì, e a Caravé, e giò a Lavinia, e semper dimà par i pumàtt contro il bruciore all’ano. Qualsiasi altra cosa tu compri, dall’aspirina ai barbiturici alla cicuta non gliene frega niente a nessuno, mai nessuno che ti domanda “a che cosa le serve”. Ma se tu compri una pomata contro il bruciore all’ano, ci sarà sempre una stronza di farmacista che ad alta voce ti chiederà davanti a tutti: “E a cosa le serve codesta pomata?” Solo se non c’è nessun altro in negozio, non te lo chiedono. Ma se ghè lì di gent: “Per cosa le abbisogna la pomata, signora?” Mi abbisogna perché ci ho giù un incendio nei paraggi del culo, santa Madonna dei pompieri!
Di andare a contemplare la tv a colori accesa o spenta non se ne parlava, perché il signor Sandro era parcheggiato di sbieco in salotto e armeggiava laborioso con la patta aperta come se volesse mettersi a pisciare sul tappeto, per una forma di protesta o che so io, (magari la telefonata andava avanti così da un paio d’ore, porcu dìghel) e la diatriba anale non accennava a sfumare o a placarsi, così io e la Cristina dopo esserci lanciati uno sguardo d’intesa andammo ad appoggiare la bottiglia piena di latte sano puzzolente appena munto, insieme a un paio di mosche di staffetta che ci avevano seguito, sul tavolo della cucina, dove regnavano odore di piatti lavati e pace di pendola. Poi prendemmo quella vuota del giorno prima per il giorno dopo che la Marilù del bosco aveva risciacquato e preparato lì per noi e, dopo aver rivolto alla suddetta Marilù Infuriata Per L’Interrogatorio Sulla Pomata un non ricambiato cenno di saluto, sgattaiolammo fuori.
Allora dopo sulla via del ritorno io facevo l’imitazione della Marilù del bosco che gli brucia il culo, la Marilù del bosco che grida “Me brusa ‘l cü, e alùra?!”, facevo l’imitazione e la Cristina rideva come una matta, e anch’io ridevo ma lei di più, perché io mi dovevo controllare per non interrompere l’imitazione e lei no, e più rideva più mi si stringeva addosso a frotte di Cristine che mi davano spallate come per sbattermi fuori strada nel bosco (spallate che mi rallegravano il midollo e mi attizzavano focherelli nell’anima) e più mi guardava con occhi innamorati come se mi si volesse mangiare intero lì nella via Roccolo da tanto che mi amava e da tanto che la facevo divertire, era un momento così bello da augurarsi che non finisse mai, perché i suoi occhi ridevano e di certo mi amavano, al punto che mi chiesi, lì per lì, se il segreto per far innamorare le femmine non fosse proprio quello di riuscire a farle ridere – e noi maschi piciorla che credevamo bisognasse essere belli e coraggiosi e regalare fiori e anellini e fare a botte per loro, quando invece bastava solo essere simpatici e farle morir dal ridere!
Da tanto che rideva la Cristina le uscivano le lacrime dagli occhi, erano belle, quelle lacrime, mi piacevano, m’ingolosivano, avrei voluto berle, e avrei voluto fossimo più grandi e già sposati per abbracciarla e metterglielo dentro lì per strada e fare un altro figlio dei magari quindici moribondi di fame che avevamo già, e a un certo punto ci fermammo a ridere, io di fronte alla Cristina del mio cuore e lei di fronte al Corradino del suo cuore, lei con le lacrime di riso sulle guance e il collo della bottiglia vuota in una mano, io senza niente in mano tranne la voglia di accarezzarle le lacrime e di metterlo dentro alle lacrime e stringerla forte forte forte più di come lei stringeva la bottiglia, e allora qualcosa mi disse che il momento era quello, che l’occasione non si sarebbe ripetuta, e mi slanciai verso di lei per azzardare un bacio su una guancia, non in mezzo alla guancia ma addirittura a lambire le vicinanze della bocca, presi coraggio e mi slanciai facendo il grugnetto per il bacio in direzione della sua guancia sinistra alla mia destra, ma non avevo calcolato (come potevo calcolarlo? come potevo anche solo sognarlo o implorarlo in preghiera?) che lei in quel preciso istante si sarebbe buttata di scatto verso la mia bocca per baciarmi sulle labbra, e così le nostre bocche a grugnetto pronte a scoccar baci s’incrociarono distanti nello spazio cosmico come quando si dice che una cometa sfiora un pianeta ma in realtà è passata a quarantamila milioni di chilometri, cosicché il suo bacio, la cosa per me più preziosa e desiderabile del mondo, il suo bacio audace e inaspettato destinato addirittura alle mie labbra per farmi felice donandomi l’ambrosia delle sue mancò le mie labbra e andò sprecato nell’aria della sera (o magari beccò un moscerino non all’altezza di apprezzare la fortuna che gli stava capitando), mentre il mio, destinato alla sua guancia sinistra alla mia destra, andò a cozzare goffamente contro la sua orecchia sinistra sempre alla mia destra. Goffamente e pure con una certa violenza, per la somma algebrica dei nostri opposti slanci a grugnetto proteso.
Ci guardammo, istupiditi da quello che era successo. Difficile spiegare il cambiamento repentino che era avvenuto. Era come se invece dell’orecchia le avessi ammaccato un parafango in maldestra manovra, una situazione assicurativa da constatazione (si sperava) amichevole. Se ci fossimo rimessi a ridere la risata ci avrebbe salvati, e probabilmente ci avremmo riprovato con più calma e ci saremmo riusciti, ma io rimasi lì come un allocco, incerto se scusarmi per averla voluta baciare o per averle di fatto impedito di baciarmi o per averle beccato l’orecchia, lei glacialmente perplessa in parte per avermi mancato per colpa mia (era come se avessi voluto schivarla!!), ma soprattutto perché le avevo beccato quella cazzo d’orecchia, insomma l’incantesimo era svanito, lei tacque, io stetti zitto, e lei, dopo aver taciuto, toccò la sua orecchia contusa, come per valutare i danni, e poi mi chiese: «Perché qui?»
«Così», risposi. Da bravo idiota che ero. Neanche l’avessi progettato per mesi con tanto di simulazioni e disegni, di baciarle l’orecchia. Non dissi che mi ero sbagliato e che magari era il caso di riprovare, semplicemente risposi: «Così».
Dopo, da lì fino ai pilastroni della fattoria, non ridemmo né parlammo più.


Nell'immagine in alto: copertina della precedente stesura (intitolata gementeseflentes) con la fotografia artistica di Klas Pedersen AVANZI PERPLESSI DI NATURA COTTA.


giovedì 18 novembre 2010

Sorensen Puddu - Replica (16)

non amarmi ti meno


Ardevo in la biemmevù benimboscata al buio a cm pochi dal mio malassortito e non corrisposto ammòre (io nella mia fase Jane, lui sempre Tarzan, ma meno sofisticato e istruito, più trinariciuto, più Cito imburgnito, e pure maledettamente cocciuto) quandecco telefonò l’intempestivo Ezequiel
Aló, como va?
Bene, grazie, e tu?
Bene, grazie, e tu?
Bene, grazie, e tu?
Bene, grazie, e tu?
Chiedigli come sta, s’intromise il mio malassortito ammòre
Il mio malassortito ammòre mi chiede di chiederti come tu stai, o intempestivo Ezequiel
Bene, grazie, e lui?
Bene, grazie, e tu?
Bene, grazie, e lui?
Lo so che repetita scassant, ma del resto riattaccare in faccia a un amico è cosa che a livello galateiale non si fa, linasotis stradocet
Laocoonte per cui spensi

Ti dissi ti amo e tu rimanesti esterrefatto come uno stronzo uscito di bocca, cioè col permesso di linasotis cagato contromano. Poi arrivò la tua risposta e io rimasi tume fatto. Ti dissi ti odio e tu mi dicesti OK, questo è accettabile. Eppure credevi nell’amore universale e ti piaceva quel signor cristo. Ti diedi un bacetto piccino e lieve sul labbrotto e tu con un pugno mi facesti volare quattro denti dei più belli tra cui proprio il mio preferito contro il parabrezza interno della biemmevù. T’appioppai una pappina spaccanaso e tu dicesti OK, questo è già più normalino-omologatino, finalmente un gesto schietto da ometto perfetto – che ce l’avresti un fazzoletto por la sangria nasàl?
Ma de nuevo, mierda y vacca merenda, l’intempestivo Ezequiel
Ola, cioè s-ciaos, como vas?
Mira che il movìl es spentolinos!
Bene, grazie, e tu?
Aggia skassat’a miinkya!
Bene, grazie, e tu?
Simulai un ictus alle batterie.

Eravamo sempre lì, mi sdentàt, yu epistàss (ma come ci eravamo arrivati a imboscarci così bene? allora inconsciamente ci stavi, brutta checca repressa?) me Yanez corretto Marian, tu Sandokaz, ma più bruto, più rude, più puzzolente, atto a difendere la tua macha pisellonità anacronistica a colpi di scimitarra scorbutika e fetente
Mi vuoi un po’ di bene?
Boh
Un po’ di pene?
Passo
Bacino?
Ti ammazzo
Cazzotto in testa?
Yess
Ma di che segno sei?
Lattuga
Questo spiega tutto
Cioè?
Che ne so. Mai stato attento, alle spiegazioni

Provai con una carezzuola, e mi ammollasti una cazzuolata di quelle che arrivano di taglio nelle balle, frastagliandole. Ti assestai un bel calcione nel culo che così da seduti non so come ci ebbi riusciuto e tu mi dicesti OK, finalmente un comportamento non dico da maschio ma almeno, perdiana, da uommmo. Eppure credevi n’il dolce clito universale e nella bellezza senza pari dell’amore. Ti regalai una rosa e tu mi denunciasti delatore al telefono macho. Eppure pergabbana avevi sempre detto di non sapere il numero. Ti dissi Guarda che meraviglioso planar di gabbiani nel crepuscolo e tu mi sputasti in bocca. Ti dissi Fffiuuuuu, ardakeffffffiiga! mentre passava la tua mamma, e tu mi dicesti Forse non sei del tutto senza speranza, ex amico mio, e comunque vaffanculo e beccati ‘sto gancio alla bocca dello stomaco e non farti più vedere, brutto finocchio. (Hai ragione, scusa: tua mamma non è figa. È un cesso umano che mollami, anzi, scrofigno. Altri due denti). Ma perché rifiuti di godere assai mediante stimolazione digitale del tuo perineo sulla biemmevù benimboscata al buio che non ci vede nessuno, per colpa di uno stolto pregiudizio viriloide? Se il tuo dio non avesse voluto farci godere non avrebbe dato un punto G financo ai cazzoncelli, o quantomeno non lo avrebbe piazzato da quelle parti lì!, postulai. Allora tu come risposta volesti stimolarmi un’altra settina di piccole ossa gengivali, e quella mi conveniva considerarla oltre che un uppercut una risposta definitiva, giacché i dentini cominciavan a scarseggiare, e l’effetto di tanto affetto a influire su certe consonanti della mia dizione

Sulla biemmevù si creò un grandevuoto, riempito solo dalla scoreggia di cui mi omaggiasti prima di scendere furibondo e petente. Incisivi e premolari a parte, non una grandeperdita per me, ma una doppia perdita (di Me e di gas) for you
Ti consigliai una visitina da mio cugino, il famoso gastropetologo (vetero etero, vai tra)
Ti chiesi anche perché diavolo scendevi e te ne andavi, visto che la biemmevù era la tua, ma tu non volesti sentir ragioni e io pensai di correre a rivendermela
Tornatore indietro ti facesti per dirmi una robina
Stavi forse insinuando che il mio subconscio è frocio, visto che la macchina era mia e guidavo io e son venuto a imboscarmi con te?!!
Che ne so
Allora tienti il mio subconscio e la biemmevù e andatevene affanguglia tutti e tre
Posso rivenderla?
No, mangiala
E con cosa la mastico?

A quel punto ero talmente ferito e contuso e sballottato e sanculotto da non capirci più un cristo, e allora in quella mi apparve un tizio e disse Vedo che la mia storia non ti ha insegnato proprio nulla
Ma come, non capisco
Dico, sapevi di giovanni e ci provi lo stesso con diegubaldo? Se è andata male a me, come speravi andasse a tu, che sei fetecchia di polvere e polvere tornerai, e scaracchio di cenere nel mio portacenere?
Non capisco.
Vedi di svegliarti!
Cioè?
Ti sto chiedendo, sapevi di giovanni?
Diciamo di sì, lo assecondai.
E per cosa credi che mi abbiano appeso?
Va bene, ma tu chi cavolo sei, che non capisco più un cristo?
Sono per l’appunto l’invan summenzionato unto e non caputo
Presi uno spillo e feci scoppiare l’apparizione

Mentre cercavo denti sul tappetino ritelefonò l’intempestivo Ezequiel
Uélla, come va?
Egne, accie, e u?
Bene, grazie, e tu?
Egne, accie, e u?
Bene, grazie, e tu?
Sfanculai e riagganciai (cara linasotis, quando ci vuole ci vuole) ma poi tu ti rifacesti tornatore indietro (2 maroni) e mi dicequi Va bene mi hai convinto sono tuo baciami carezzami proteggimi sposami riempimi di coccole leccami succhiottami penetrami sfondami sgonfiami fammi, fammi di tutto e fallo presto che più non resisto ammoremmìo!
Spiacente, risposi, tempo scaduto, è orora terminata la mia fase Jane, ho giustappunto appuntamento fra due minuti e un quarto con tua sorella per una trombatella regular vaginella
Fin troppo prevedibboli la tua reazzzione:
denti finiti, storiella pure

fimmafo: foenfen fuffu


martedì 2 novembre 2010

Poesie del poeta pentito

Ne ho scritte solo fra i 16 e i 19 anni. Poi smisi, perché mi parevano bruttine. Ma su questo blog ho deciso di darmi con generosità, senza paura di figuracce. Quindi, vogliatene gradire un microassaggio.



COINCIDENZE SUL BINARIO MORTO


Corre
La terra
Luccicante
Sui campi
Sonnolenti

(Così stanco
Di stare
Da solo...)

E mi guardo
Con sospetto
Nel vetro

Sto vivendo
Come un'ala
Senza volo




OCCHI SUL TRENO CHE CORRE


Tu,
Occhi belli sul treno che corre
Forse un giorno ti rincontrerò
Sarai madre di tre o quattro figli
E io chissà come sarò

Tu,
Occhi dolci sul treno che corre
Forse un giorno ti rincontrerò
Sarai padre di tre o quattro figli
E io... io temo proprio di no

Tu,
Occhi stanchi sul treno che corre
Forse un giorno ti rincontrerò
Sarai una foto su una lapide bianca
E io credo che t'invidierò

Tu,
Occhi ciechi sul treno che corre
Dal respiro senti che sono triste
Stai per dirmi qualcosa di dolce
Ma purtroppo devo scendere qui




VENTO BASTARDO


Uccelli
Imperterriti
Volano
Via
Pur se
Il vento
Bastardo
Li vorrebbe
Fermar

Il mio
Cuore
Incagliato
Dentro questa
Poesia
Sta cercando
Il sistema
Di venire
Da te

E di tante
Illusioni
Celate in fondo
Al mio sguardo

Restan solo
Bastarde
Poesie
Dentro il vento
Bastardo

venerdì 22 ottobre 2010

Assaggi di romanzo (5)


da il taccuino rosso di wolfsburg
parte iniziale del capitolo 17



A luglio la frescura della chiesa era più ristoratrice di un ghiacciolo alla menta comprato all’Hostaria dei Cacciatori lì in piazza, e il primo sgocciolio d’acquasantiera sui polpastrelli e sulla fronte (il Padre) pareva scaturir da viscere di rocca di montagna.
La visita alle tombe era sfumata, per oggi. Le incombenze spalerecce avevano tenuto Gianni inchiodato alla fattoria per tutta la mattina e il primo pomeriggio, e alle sei eravamo di turno come chirichetti per servir messa alla vespertina delle vecchie, che si sarebbe prolungata oltre la chiusura del camposanto. Le cui muraglie impervie lo rendevano ben più impenetrabile di Villa K.

(...)

La chiesa parrocchiale dedicata a San Rocco, ricca di affreschi e decorazioni, era sproporzionata per Cuviago come lo sarebbe una cattedrale gotica a Lavinia. Io tutte le volte che entravo non potevo evitare di commettere peccato ripensando alla barzelletta sacrilega dello zio Renzo al matrimonio piemontese. Era la storia di uno che inciampava in chiesa, e non volendo bestemmiare si sfogava rivolgendosi ai romani nel quadro della via crucis:
“Forza fiòj! Inciodélo!”
Ma oggi, se chiudo gli occhi e penso “chiesa”, la prima cosa che mi viene in mente è don Gioele con la sua bellissima voce da baritono, e un brivido sconquassante mi percorre ora come allora da capo a piedi nel risentirlo cantare, fremendo di commozione e quasi tremando, quella strana, lunga, disperata parola: “Geementesefleeentes…” che sta nel cuor cuore del Salve Regina. Ero e sono sicuro che in quei frangenti, su quegli acuti, lui ci facesse l’amore, con la sua Regina. Ascoltandolo e guardandolo intuivo che l’amore puro era qualcosa che poteva esistere veramente, che gli angeli asessuati non erano degli esseri con qualcosa di meno, ma con qualcosa di più. Però gli ignorantoni del paese queste cose non potevano capirle, e spettegolavano che don Gioele si scopava (che schifo) la De Ropp.
La De Ropp vista da noi non era una donna, ma un’istituzione come il catechismo, l’acquedotto, il passaggio a livello. Non era roba che si potesse scopare.

Arrivammo appena in tempo. In chiesa c’erano già tutte e cinque le vecchie, che ci guardarono malissimo – eravamo ansanti e zuppi di sudore, e con l’acquasanta per la fretta invece del segno della croce bel completo avevamo finito col mimare spennellamenti a carciofo sulle fronti. Don Gioele era già in sagrestia che ci aspettava, in compagnia del Norino che lo aiutava nella vestizione. Il vecchio Norino era un personaggio dell’Italia in miniatura: piccolo, pelatino, coi baffettini da un po’ avvizzito Charlot, omino piissimo, origliava le messe dalla galleria che metteva in comunicazione sagrestia e altar maggiore, e sbucava fuori solo per ricevere l’ostia, come un topino timido attirato dal formaggio. Mai lo sentii pronunciar parola che non fosse l’impercettibile “Prosit” che sbiascicava addosso a don Gioele a fine celebrazione. Per il resto sembrava muto: se doveva redarguire noi chirichetti per il nostro arrivare chiassoso, si limitava a guardarci male e a mettere l’indice in miniatura davanti alle labbra in miniatura. Per mesi lo credetti una creatura dedita a null’altro che alla sagrestia, dove pensavo vivesse e dormisse dentro qualche custodia o tabernacolo, e fui molto sorpreso quando venni a sapere che il buon Norino Prosit era nonno: il nonno materno del terrificante bullo Pierfranchino Azzalonna.

venerdì 8 ottobre 2010

ANTROPOMETRIA - Il meritato esordio di Paolo Zardi


Oggi voglio concedermi una recensione come quelle che scriveva Bukowski: semplice e immediata, forse un poco ingenua, ma fatta con quel genuino, sincero entusiasmo che dovrebbe essere il succo di tutte le recensioni che abbiano lo scopo di mettersi al servizio dei lettori e della scrittura, e non di mettere in mostra la bravura del recensore.

E allora semplicemente vi dico, consiglio, ordino: leggete il bel libro d’esordio (l’atteso e promettente esordio) di Paolo Zardi intitolato Antropometria e appena pubblicato dalla Neo Edizioni (pagg 176, € 13), una giovane e appassionata casa editrice che oltre a fare libri originali e coraggiosi ha pure la prerogativa non da poco di fare bellissime copertine. Inutile dire che la Neo è piccola ma onesta: fossero imbroglioncelli a pagamento non ne parlerei. Siete ancora lì indecisi? Non fatemi incazzare.

Dopo tanto mio scrivere (giustamente) male di tutta quella schifosa feccia raccomandata o ben maritata che non merita un cazzo ma che a mafiopoli spopola, lasciatemi la soddisfazione di dirlo: Paolo Zardi è uno che ha talento, è uno senza peli (di nessuno!) sulla lingua, e merita che i miei amici divengano suoi lettori, e i miei lettori divengano suoi amici. I suoi racconti grondano umanità e vita vera. Ma non è la squallida, banale, deludente, rasoterra docufiction degli scrittori-magnetofono che vanno oggi tanto di moda: è la vita vera narrata da un vero artista. Ché la Narrativa è ancora un’Arte, checché ne pensino certi lobotomizzati editoriali e i loro spastici scolaretti.

Questi suoi racconti, ne sono sicuro, vi daranno qualcosa. Vi daranno molto. Se non vi dessero nulla, ci sarò qua io a rimborsarvi il prezzo del libro. Non lui: io.

Parola di Scriba.

sabato 4 settembre 2010

Domenica maledette cavallette della domenica


UNA SEDIA AL MARE



Pomeriggio infuocato di luglio, giorno del Signùr e delle Cavallette, in attesa della bella cosa chiamata Lunedì Mattina…

Il vostro Zio preferito arriva in spiaggia all’Oasi e, appena sbucato dal viottolo della pineta, riporta ferite in scontri frontali con: due gormiti di cui uno (il più leggero) di piombo; un frisbee d’acciaio inossidabile; il bambino idiota inossidabile che stava inseguendo il frisbee; il padre scimpanzorla del bambino che inseguiva il pargolo per, se dio vuole, menarlo a sangue, possibilmente col frisbee, di taglio; una vecchia carrarmata con le tette in titanio, in lacrime (lei, non le tette) per aver visto la madonna e averla poi subito persa di vista nell’assai poco mistico bailamme; un vecchio allo stato bradipo appena cascato dal tavolino al cui orlo era appeso per giocare a maraffa scolandosi una caraffa, di grappa; un pallone da beach volley proveniente dal campo del limitrofo Bagno Lux ove il prode Pamparani, unico rimasto su tutto il litorale a preferire il beach volley al beach tennis, gioca contro se stesso (e perde). Il vostro Zio preferito osserva allora perspicace che forse c’è un pochettino troppo casino, e la domenica pomeriggio converrebbe dedicarla tutta a un ristorator pisolino, o a danza della pioggia per originare il Fugone, detto anche Feu Di Bàl.

Intanto, nel bel mezzo della zona pavimentata (tavolini verdi maxiombrelloni crema sedie blu) s’è venuta a creare una strana isola di semideserto: c’è un omino biondo sui 45 seduto tutto solo su una sedia isolata, senza tavolo, come se gliel’avessero portato via, lo sguardo vuoto perso nel vuoto, in mano un boccale di birra, indifferenti lui la sedia e la birra a tutto il caos che li circonda.


Poco dietro di lui, una fila di persone 44 stringe d’assedio la famiglia Bonanza Educanza asserragliata nella cabina della doccia. Nei precedenti 50 minuti i Bonanza Educanza hanno proceduto alle seguenti operazioni: docciaschiuma, shampoo (prima e seconda passata), balsamo, asciugatura, rivestitura, taglio unghie, bigodini al bambino di due anni, ma ancora non si schiodano perché non trovano la presa per la spina del phon. Da più o meno metà fila partono un porcapaletta, un paio di bestemmie silenziate, un vaffanguglia neanche tanto silenzioso. Ma i Bonanza Educanza in buona sostanza se ne sbattono le balle, mica c’è esposto un cartello che fissi tempi massimi per la doccia. È già tanto se il capofamiglia non fa fuoriuscire un dito medio dalla feritoia in alto a sinistra…


Tra i vecchietti e meno vecchietti ai tavoli da maraffa con o senza caraffa c’è anche il sosia dell’attore Carotenuto, incarognito nero perché si ritiene giocatore abile ed esperto ma è dal ‘72 che non vince un trentuno. Il sosia di Carotenuto è famoso per essersi, anni fa, appropinquato non invitato allo spigolo del tavolo ove giocavamo in quattro ragazzi alle prime armi. Restò in muto e comatoso dormiveglia russante per lo svolgersi di varie mani, dopodiché, trascorsi all’incirca ore una e minuti 56, sbottò a tradimento all’indirizzo di un ragazzino alla seconda partita della sua vita: “Il do ad coppi, diobojjèèè!!”, per poi alzarsi e andarsene via disgustato.

L’omino biondo è sempre fermo e zitto sulla sua blusedia in mezzo al delirio, vuoto lo sguardo nel vuoto a perdere del mondo, il terzoquarto boccale di birra quasi vuoto anche lui.

I Bonanza Educanza al gran completo (la figlia femmina nel frattempo ha fatto cacoty, redarguita da mamma che le dice Non potevi farla nel mare? – non al cesso, giustamente, nel mare) tengono duro chiusi a chiave nella doccia. Dal settantesimo posto della fin troppo paziente fila parte ora, fragoroso come un tuono, un Boiadiquelcane, giochiamo a briscola lì dentro o cosa, boiacane?


Nel campo da Beach Tennis è in corso fin dall’alba un torneo di racchettoni organizzato da sboroni venuti da fuori. Siamo alle semifinali, e la partita di doppio misto è tutta uno show testosteronico maschile del Semi Professionista De Racchettis Bandanaitis Scurnacchiato Marabù e del Professionista Semo Rogerio Scrofigno Schisciapuleggia di Valpupazza, Terzo. Nessuno di loro è dell’Oasi. Questi tornei di doppio misto per Professionisti Semi sboroni venuti da fuori partono sempre all’insegna della galanteria, della poesia e cavalleria, del fair play e del bon ton (rose rosse a ogni battuta, baciamano al cambio campo), ma poi nelle fasi decisive per la decisiva assegnazione di una borsa sponsorizzata o di una maglietta troppo stretta si arriva molto vicini al fatidico Spostati Troia Che Le Prende Tutte Superman.

Un folto pubblico assiste all’esibizione, metà assiepato sul lato sinistro del campo, metà dietro, nella veranda del bar. Quelli di lato sono amici parenti e amanti dei Professionisti Semi, e ad ogni colpo applaudono in estasi orgasmica. Quelli dietro sono i bagnanti dell’Oasi che li guardano torvi e cagneschi e pensano: Perché i vostri tornei del cazzo non ve li fate ai vostri lidi ravennati del cazzo, dove ci sono sei cazzo di campi per ogni cazzo di bagno mentre qui ce n’è uno solo e vorremmo tanto poterci fare una partitina, cazzo, noi?

Si levano anche, in volo radente, stormi di porcapaletta in assetto di guerra, boiacàn e distinti fanculi.


Rifugiarsi nel mare? Di questi tempi l’acqua dell’Adriatico è pulita, invitante, limpida persino, ricca di cefali e cavallucci marini, ma di domenica non ci sono i cavallucci perché non c’è nemmeno l’acqua: c’è la piscia delle cavallette e i loro stronzi tartufati, e al posto dei cefali i microcefali della tintarella in riva.


L’omino biondo è sempre lì, sempre più insediato sulla sua sedia, sempre più imbirrato nella sua birra, svuotato sempre più il vuoto sguardo disperso nel vuoto che è sempre più vuoto.

Verso le 5 e mezzas de la tardes lo staff dell’Oasi riserva una piacevole sorpresa, fette di cocomero gratis per tutti, bello rosso rinfrescante e succoso, e davvero ce ne sarebbe per tutti i troppotroppi che siamo, ma ecco scattare dai blocchi il capofamiglia dei Bonanza Educanza che arraffa per la famigliola sua fette di cocomero 236, e ne butta pure la metà nella spazzatura lamentandosi pei troppi semini. Partono, in ordine sparso, dei porcapaletta, un dio treporcellini (mio), un boiacane, un vaffanculo generico e uno dedicato. Più, di uno.


I Professionisti Semi escono dal campo con l’aria di voler firmare autografi, le loro donne invece non si schiodano, anzi chiamano dentro le amiche pigolando: “Facciamone qualcuna amichevole fra noi, che fino adesso non ci siamo divertite, con quei cazzoni merdoni sboroni testosteroni”. In veranda e altrove si perde il conto di vaffa, diovincùli e paternòstar.


L’omino biondo della sedia è sempre lì, sperduto e isolato nel blu, circondato da bambini che danzano al ritmo di musiche assordanti, gabbiani che si credono avvoltoi, cavallette che si credono persone, vecchie sguaiate che gridano, culi che parlano e bucce d’anguria che tacciono. Lui sta per avere un abbiocco. Sta per addormentarsi e lasciar cadere a terra il boccale di birra. La piccola catastrofe potrebbe originare un disastro cosmico, il Buco Nero finale. Ma per fortuna (o sfortuna?) gli vibra la mutanda. L’omino si riscuote. Estrae un telefono cellulare dai mutandiferi meandri. Risponde alla chiamata (sa come si fa). Ascolta la voce di qualcuno che da qualche mondo a noi ignoto lo chiama, chiama proprio lui. L’omino biondo della sedia ascolta per un po’. Pare persino capire cosa gli stiano dicendo o chiedendo. Forse la voce all’altro capo dell’onda gli pone un quesito filosofico del tipo Dove cazzo sei?, perché l’omino biondo della sedia, con un misto di quieta disperazione e umorismo esistenziale, come risposta non esclama null’altro che: “Sono nella sedia!”. Poi riattacca. E resta lì.