L’invenzione degli animali di Paolo Zardi (Chiarelettere) è un thriller fra l’antropo-biologico, l’etico-genetico e il fantascientifico (ma sarebbe più esatto dire scientifico-predittivo: a quel punto stiamo per arrivare, o forse ci siamo già) talmente godibile, originale, avvincente e ben scritto da non sembrare neppure… italiano.
(Lo considero il più bel complimento: quando lo dicono a me mi commuovo e mi esalto, e mi sento davvero Scrittore, visto che “scrittore italiano” negli ultimi trent’anni è diventata quasi una contraddizione in termini).
Soprattutto per il modo in cui profondità, sapienza, accuratezza e intelligenza si sposano a leggerezza e leggibilità, laddove i secchioncelli italioti medi contemporanei (vere negazioni viventi dell’Arte di Scrivere) ritengono che produrre un romanzo oggi significhi dimostrare a ogni illeggibile pagina di “avere studiato”, un po’ come fanno quei somari col cervello piccolo, ma saturo di nozioni, che di imperversare in burocratese, medichese o filosofese addirittura si vantano. (Per non parlare delle lezioncine di perfezione politico-ideologica: qui, ovviamente, non ne troverete. O al massimo le intuirete, volendo, fra le righe, senza stucchevoli proclami o manifestini sul genere “fascistometro”).
Non c’è momento in cui non si capisca che Paolo sa benissimo di cosa sta parlando, che è padrone della materia e della storia in tutte le sue implicazioni e diramazioni, che non si arrampica sugli specchi, che è dentro i suoi giovani e palpitanti personaggi, che si è documentato leggendo con passione (una passione tramandata dal padre, cui il libro è con amore dedicato), che possiamo farci prendere per mano da lui e seguirlo con fiducia perché lui è pienamente conscio di cosa sta narrando, eppure mai, neppure una volta, l’autore asseconda quel vizio detestabile di stordirci e di trivellarci la minchia con terminologie incomprensibili di stretto gergo tecnico: essendo un più che valido narratore, non ha nessun bisogno di mettere sotto i nostri occhi i singoli risultati di un inevitabile lavorio di documentazione e approfondimento, ché quelle sono fasi preventive e intermedie, impalcature da far sparire quando l’edificio è completato. (Mi viene in mente il bravo Jonathan Lethem, quando in Anatomia di un giocatore d’azzardo racconta magistralmente una lunghissima e delicata operazione di plastica facciale, senza scomodarsi nemmeno una volta a fare il saputello terminologico da sala operatoria, anche se da come scrive risulta ovvio che ha indagato a lungo e che sa: ma vallo a far capire a quegli scribacchini e scribacchiotte che se il protagonista è un chirurgo scrivono in modo più astruso e ostile di una ricetta specialistica, per sbatterti in faccia i risultati della loro accurata ricerchina!)
Uno dei tanti meriti di Paolo è quello di saper rendere per certi versi convincenti e affascinanti anche (e soprattutto) i monologhi dei “cattivi”. Ascoltare il cattivissimo Kapoor (personaggio che mi è odioso) e le sue perfide, ciniche, ma tutt’altro che stupide idee (non metto assaggi qui per non guastarvi l’appetito) è una vera goduria.
I sempre più rari amanti della bella lettura lo sanno: un libro siffatto (che si pone fra Houellebecq e Michael Crichton) è un felice compagno che da un certo punto in avanti ti tiene inchiodato sul divano (possibilmente con un gatto in grembo, se hai la fortuna di averlo) fino alla fine – e tutto il resto si fotta.
È come se il mio illustre collega Paolo Zardi avesse voluto “punirmi” per la mia insistenza nel definirlo più bravo sul breve, più portato a scrivere racconti. Mai punizione giunse più gradita: questo è un Romanzo che meriterebbe di diventare un bestseller internazionale.
Non fatemi incazzare.
Parola di Scriba.