I pochi anni d’esperienza come scrittore mi stanno insegnando che non c’è niente di più bello del trasformare una presentazione in uno scoppiettante reading. Più si legge e meglio è. A meno che uno non si vergogni di quello che ha scritto e voglia stenderci sopra un peto veloso (in italiA succede anche questo, e anzi, per una questione di decenza dovrebbe forse capitare più spesso!)
Mi vien da pensare che valga pure per le recensioni. Potrei starmene qui mezz’ora a dirvi quanto sia straordinariamente bravo Paolo Zardi (che come tutti i veri purosangue non è spuntato fuori da nessuna sqhuola, che non sia quella della Lettura, della Scrittura e della Vita) o quanto sia stata meravigliosa e geniale la Neo, in questi ultimi anni, a dissociarsi da un andazzo editoriale nazionale che sembra volto a erigere nientemeno che una Barriera Anti Scrittori Talentuosi (BAST) – una barriera che lascia passare solo chi scrive in banalese, in politichese, in sciattese, in troiese, in luogocomunese, o peggio ancora in muffese erudibondo. Gli Scrittori sono tutta un’altra razza (da noi quasi estinta). Ma perché indugiare in chiacchiere, quando c’è da mandare avanti un testo in grado di parlare, di testimoniare, da solo?
Sulle prime mi sono trovato in difficoltà nella scelta: ci sarebbe stato veramente da ribatterlo tutto. Ho deciso allora di proporvi piccoli brani isolati dandogli dei titolini miei, e accompagnarvi per mano dentro il libro come quando si riceve qualcuno presso un amico che in quel momento è troppo affacendato per fare gli onori di casa, così da farvi venir voglia, dopo questo benvenuto, di andare avanti da soli, ma senza avervi tolto il gusto, senza avervi svelato nulla della storia, se non dirvi che questo XXI SECOLO non è soltanto il fratello maggiore del suo recente Signor Bovary, non è solo la somma di tutti gli spunti e suggestioni dei migliori racconti zardiani, ma è un partire da tutto ciò come fosse il caricamento di una molla, per poi compiere un ulteriore portentoso balzo verso l’alto, e confezionare un Romanzo sontuoso, che ci commuove e al contempo ci spaventa.
XXI SECOLO
Quando tornava a casa, li vedeva al capolinea dell’autobus, coi sacchetti mezzi vuoti, le donne rassegnate come vacche indù e gli uomini con sguardi affamati, pronti ad azzannare. I ricchi erano spariti, tutti insieme. Da anni non ne vedeva passare uno. Rimanevano le loro case enormi e sfitte, mausolei per stupori futuri.
DIGA
Su un lato del salotto, una porta a vetri mostrava il giardino sul retro: illuminati da un lampione che si accendeva al primo cenno di oscurità, immobili sotto la pioggia, una bici a terra, un pallone nuovo, l’altalena arrugginita, la spettrale presenza di una vecchia bambola. La grondaia di rame gorgogliava come una rana. Lo spettacolo insignificante di quei dieci metri quadrati sorpresi nella loro quotidiana attività aveva qualcosa di straziante – un’insostenibile normalità. Accese il cellulare, e iniziarono i messaggi: sua figlia, sua sorella, numeri sconosciuti, una diga che cedeva sotto il peso della disperazione.
L’ARMADIO DI CEMENTO
Sua madre abitava ai bordi della città, al sesto piano di un palazzo di dieci che ne dimostrava venti, un armadio di cemento alto e stretto tappezzato di finestre, tapparelle rotte e parabole sulle terrazze.
LA FABBRICA DELLE NUVOLE
«Ho visto una ciminiera che buttava un sacco di fumo, venendo qui, lungo l’autostrada. Sa cosa ci fanno?»
«Era una conceria. Ora l’hanno comprata gli indonesiani e non so cosa ci facciano. Mia figlia, da piccola, credeva che fosse la fabbrica delle nuvole».
BLATTE
I muri erano scavati da mani rapaci lungo tracce che un tempo avevano accolto tubi di rame o fili elettrici; mancavano le porte, gli stipiti, il pavimento, gli interruttori, le finestre, i sanitari. Abbandonato a se stesso, l’uomo non diventava un lupo ma una specie di insaziabile blatta.
DISCARICA
Sembrava un vulcano, o il cratere di un meteorite. Sopra, i gabbiani volavano seguendo strane traiettorie ellittiche.
«Brucia sempre, giorno e notte. Ogni tanto arrivano i camion, e scaricano tutto. L’anno scorso ho visto gettarci un elefante intero – pare che appartenesse a un circo bulgaro che passava da queste parti. Riesci a immaginare un elefante morto? È una montagna di carne. I gabbiani non riuscivano neanche a volare, tanto erano sazi. E ce n’era per tutti. Di sera, c’erano famiglie di saprofagi che si fermavano a cena. Avevo paura di uscire».
Anni prima aveva letto che a Pompei era stata ritrovata la coscia di una giraffa. Chissà com’era spolparsi una coscia lunga tre metri? Loro, invece, ai futuri archeologi lasciavano lo scheletro di un elefante infilato in un buco mefitico; si sarebbero scervellati per anni, ma non sarebbero arrivati a cogliere il profondo mistero del ventunesimo secolo.
POST VENDITA
Il ritorno a casa era pervaso della malinconia che prende gli amanti dopo l’orgasmo, quella che, di norma, precede il sonno.
La vendita seguiva le stesse regole dei rapporti amorosi: le manovre di avvicinamento, il corteggiamento, l’accerchiamento concentrico, l’assalto, la resa e l’inevitabile tristezza che seguiva il coito. I centri commerciali erano pornografici – zero sentimento, e nessuna conseguenza. Ma vendere di persona, in casa di qualcuno, dosando consigli affettuosi e ragionevoli inganni, quello era un atto d’amore. Non c’erano storie.
DINOSAURI
La notizia del giorno era la scoperta di un paleontologo malese: i dinosauri si erano estinti perché a un certo punto avevano smesso di invecchiare. Ma l’immortalità non gli aveva garantito la sopravvivenza. La teoria del malese aveva a che fare col concetto di sovraffollamento o di emissione di anidride carbonica o entrambe le cose. Tutta quella salute era stata deleteria. Sembrava che la vita, per restare in vita, avesse un disperato bisogno di morire.
CULI
Mariagloria: alta, braccia lunghe, scimmiesche, il viso ossuto, tette come chiappe anteriori, i jeans a vita bassa che lasciavano scoperte le mutande – echi dei primi anni duemila – e un culo abnorme. (Era un problema nazionale, quello dei culi enormi. Nemmeno la crisi era riuscita a smussare quei trofei del passato benessere – non ancora).
MANI
Lei rituffò la faccia tra le mani – trovava conforto, in quei badili rosa. Avrebbe voluto averne anche lui, di mani così efficaci: appoggiarci il viso dentro, sospirare, o sparire, e per un attimo sentirsi in pace.
STALATTITI
Si chiese cosa fossero quelle luci – ricordi, congetture, barlumi di coscienza – e cosa significasse essere dentro quel cervello. Immaginava una grotta, buia, umida, dove ogni tanto una stalattite lasciava cadere una goccia. Plic. Ploc. Sul fondo, gechi trasparenti, e minuscoli insetti neri che scappavano alla vista della luce. Plic. Ci doveva essere l’eco, là dentro. Le parole, invece, erano state bandite. Un mistero ben custodito. Ploc.
GEMELLI
Quando era bambino, due suoi compagni di scuola si distinguevano solo per una cicatrice sulla guancia sinistra. In classe, li avevano fatti sedere uno accanto all’altro e quando la maestra raccontava una storia divertente, la loro risata partiva contemporaneamente, s’impennava con la stessa velocità, si spegneva seguendo la stessa curva d’intensità. Sembravano macchine infernali costruite per confutare la teoria del libero arbitrio: dimostravano che i corpi reagivano meccanicamente alle sollecitazioni esterne. La fisica, la chimica, lo strapotere del DNA. Lui, seduto dietro di loro, li guardava inorridito, sgomento, pieno di terrore.
Non so se il libro vincerà lo Strega, ma in compenso le ultime pagine, da quelle che narrano la trasferta austriaca del protagonista a certe annotazioni splendidamente lucide e ultrapoetiche sull’amore coniugale, fino a comprendere tutto il finale (pagine che lascio alla vostra personale e solitaria scoperta, com’è giusto che sia), mi sembrano, semplicemente, da Nobel: non che il resto sia inferiore, intendiamoci, ma capita spesso in un libro di imbattersi in una densità particolarmente strepitosa di scrittura buona, ispirata, felice, perfetta, e io l’ho riscontrata nei capitoli finali. E di solito questo, guarda caso, accade solamente coi Grandissimi Scrittori, mentre le mezze calzette furbette lustrano e rilustrano l’incipit con effetti speciali e cappelli da pagliaccio per poi sbavar via in calando: quanti romanzetti abbiamo letto che partono con ambiziosi squilli di tromba per poi affievolirsi in una misera, silente scorreggia? Be’, qui Zardi-Mozart è una sinfonia tragica che ci accompagna fino all’ultimo punto, senza mai tradirci, senza mai imbrogliarci, senza mai abbandonarci con la scusa che ormai il biglietto lo abbiamo pagato. Perché Zardi scrive della vita, e la vita, come la buona scrittura, è un flusso sanguigno continuo e torrenziale. Perché questo fa la grande Narrativa: dice la vita, più e meglio di tutti i saggi socioantropologici di questo mondo.
Per lungo tempo ho provato a capire a quali e quanti libri contemporanei si addicesse la formidabile invettiva bukowskiana “storia morta su storia morta, giochi schifosi su giochi schifosi, bugie schifose su bugie schifose... altri sbadigli e merda di cane morto sulla povera anima già in frantumi”. Per poi infine realizzare che si fa prima a dire a quanti NON si addice: sei o sette all’anno, non di più. Negli anni buoni. Ecco, questo Romanzo è uno di quei sei o sette. E io direi che sarebbe il caso di non lasciarselo scappare.
Non fatemi incazzare.
Parola di Scriba.