"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

martedì 19 dicembre 2023

ANTROPOCENE AI TITOLI DI CODA

Certo è una bella ironia (bella si far per dire) aver chiamato "Età dell'Acquario" l'epoca in cui stiamo plastificando gli oceani.

Del resto siamo una ben strana specie: in questo pericolosissimo Secolo Cretino definiamo "progresso tecnologico" la demenziale prassi secondo cui ogni cosa tu faccia poi ti piove addosso in automatico la minaccia dell'intervistina per la pagellina cretina (che vorrei avere tra le mani chi l'ha inventata). C'è gente che la prende così sul serio da perseguitarti preventivamente con telefonate, e-mail ed sms: "Vogliamo tutti 10!". "Se ci dài di meno dovrai spiegarne il motivo!". L'altro giorno ho avuto un problema, e l'intervistina per la pagellina cretina mi è arrivata PRIMA che mi ricontattasse il tecnico per risolvere! "Quanto sei soddisfatto del servizio?" "Ti è piaciuto, cara?" "Valuta da 1 a 10..." (Mi sono esibito in una performance di teatro dell'assurdo: voti altissimi, ma inframezzati da imprecazioni irripetibili).

Cosa resterà di noi e della nostra irresponsabile stupida spocchia? Io credo che ai membri della specie animale, vegetale o aliena che verrà dopo di noi, per ricordarci controvoglia e un po' schifati basterà un solo oggetto simbolico: una bella motosega, di quelle che usiamo per suicidarci assassinando gli alberi.

"Antropocene ai titoli di coda" è anche il titolino di uno dei capitoli del mio prossimo romanzo. Ma che ve lo dico a fare: tanto non avrete più tempo per leggere, sarete troppo impegnati a compilare pagelline vocali. O a cercare disperatamente in rete informazioni per un biglietto sull'Arca di Noè. 


lunedì 4 settembre 2023

IL DODICESIMO RACCONTO

Avevo trovato, mesi addietro, un ulteriore raccontino di papà. Stava nella stessa grande busta insieme agli altri, ma era senza titolo e scritto a penna (forse solo una stesura provvisoria), ma soprattutto mi pareva che lo stile e il tono macabro-giocoso stonassero un po' con gli altri undici, ragion per cui decisi di non aggiungerlo al libriccino pubblicato a nome suo. Ciò non toglie che anche questo ultimo racconto (più recente, perché sicuramente scritto quando era già vedovo da un bel pezzo) possa essere un carinissimo ricordo di lui. Quindi, eccovelo. Rigorosamente senza titolo. E con inchiostro blu come quello della penna usata da lui. (Mi scuso sia con l'autore che con i lettori per tutte le inutili spaziature, che non dipendono da me ma dal layout dell'editor di Blogger).


SENZA TITOLO (di Pierluigi Pezzoli)


Quando, tornato a Pinarella, arrivai in bici al bagno Oasi, trovai l’amico Gian Carlo.

Dopo i soliti convenevoli, mi disse che ero troppo solo. Mi ci voleva una compagna e me l’avrebbe trovata lui.

Passato il primo momento di stupore, finii per acconsentire, se pur con riluttanza. Però posi delle condizioni: doveva essere “bella, giovane, dolce, intelligente, disinteressata”. Insomma, data l’età, mi sarei accontentato.

Il Gian Carlo non ne parlò più.

Circa un mese più tardi, tornato ormai a casa, il Destino bussò alla mia porta sotto le specie di una splendida donna. In lei c’era tutto quel che un uomo possa sognare. Mi chiese un bicchiere d’acqua. Fu un colpo di fulmine: ci trovammo l’uno tra le braccia dell’altra.

Purtroppo non avrei mai saputo che era in fuga da una CLINICA PSICHIATRICA (EX MANICOMIO CRIMINALE). Si chiamava Ginevra.

Dopo una notte (CALA!), un’ora (CALA!) evabbè dieci minuti d’amore, Ginevra decise che potesse bastare. Strangolò delicatamente il Pierluigi. Poi, trovate in cantina un’ascia e una sega e in cucina un coltello affilato, si mise all’opera diligentemente.

Intanto aveva adocchiato in giardino il bel LIRIODENDRON dalle verdi foglie ombrose.

Ai suoi piedi, la notte seguente, avrebbe scavato la buca per dare degna sepoltura ai resti del dolce e ingenuo Pierluigi.


venerdì 26 maggio 2023

SE UN POMERIGGIO UN PETTIROSSO (Undici racconti brevi scritti da papà) - La mia prefazione.

 


Prefazione

(di Nicola Pezzoli)


Il papà inaspettato


Chi mi conosce sa quanto io abbia in odio le prefazioni. Ma in questo caso qualche parola s’imponeva. (Anzi, alla fine troverete pure, e spero ne sarete lieti, una postfazione: il testo che pubblicai sul mio blog il 30 gennaio 2023, giorno del mio primo compleanno senza di lui).

Quando muore un uomo anziano, è come se bruciasse una biblioteca, dice un proverbio africano.

Per fortuna da questo immane e disastroso incendio si sono salvati, miracolosamente, undici preziosi brevi racconti rimasti per anni sepolti in cantina, scritti “di nascosto” da papà con la macchina Olivetti regalatami da lui in occasione del mio diciottesimo compleanno. (A sua insaputa ho conservato come una reliquia il primo foglio battuto con quei tasti, una serie casuale di caratteri di prova cui fa seguito un dolcissimo “auguri a Nicola”. A volte, dopo qualche litigata, mi veniva l’impulso di strapparlo, ma una voce interiore e intima mi ha sempre trattenuto.)

E la ricchezza del tesoro di memoria che abitava mio padre – classe 1934 – è indirettamente dimostrata dal fatto che in questi racconti, ognuno a suo modo speciale, unico, irripetibile (proprio come era lui) non compaia una sola delle storie della sua vita che a voce amava ripetere più spesso: l’epico viaggio solitario da Gemonio a Roma in lambretta, o il giorno in cui conobbe la mamma durante una gita in montagna; la volta che rischiò di annegare nel Lago Maggiore per un crampo allo stomaco che lo prese quando s’era spinto molto al largo, e le persone a bordo di un motoscafo che lo lasciarono lì dopo aver risposto salutando festose, fraintendendo il suo disperato cenno di richiesta d’aiuto (si salvò nuotando lentamente a dorso per non vedere la lontanissima riva, e lì giunto, stremato e dopo un tempo che gli parve infinito, sulla spiaggetta deserta si avvolse in un asciugamano e dormì); il meraviglioso viaggio di nozze insieme alla sua Lidia sulla costiera amalfitana (all’avventura in Cinquecento senza prenotazione alcuna, altro che lastminute: pensavano di pernottare a Sorrento ma furono accolti malissimo, allora per puro caso finirono nella paradisiaca Positano, e in una pensioncina da sogno chiamata Casa Maresca), e poi lo stronzo con la Porsche che lo investì quasi uccidendolo mentre in bicicletta si recava a studiare da un compagno delle scuole superiori (risarcimento dopo interminabile degenza ospedaliera: una bici nuova!) o l’uomo di spettacolo che, colpito dalla gradevolissima voce di questo bancario di mezza età, gli propose di mollare tutto e stabilirsi a Roma per iniziare una (tardiva e molto incerta) carriera da doppiatore di film, o episodi di quando andava a lavorare nella vicina Cittiglio in sella alla sua bicicletta verde Radi (ovviamente non da corsa) e i colleghi lo prendevano in giro, perché pedalare non era ancora diventato una moda; non ci sono neppure racconti sui suoi parenti preferiti, come lo zio Enrico, genio degli innesti di alberi da frutto e vigneti (stesso giorno di nascita di mia mamma, il 7 maggio!) e non a caso nonno di un biologo di chiara fama internazionale (questo fratello maggiore di suo padre, che Pierluigi adorava, compare in un paio di racconti ma come discreto e silenzioso comprimario, quasi “di striscio”), o come il buon nonno Ettore che riempiva di gioia il piccolo “Igi” portandolo a vedere “i giupìtt”, il teatro ambulante dei burattini che arrivava dal Piemonte, né ve ne sono sulla bella fabbrica dei fratelli Pezzoli (pentole e altri oggetti in alluminio) messa in ginocchio dai soliti truffatori, che sparirono senza pagare un ordine enorme dopo averne regolarmente pagati diversi più piccoli, così come mancano i ricordi legati alla guerra (di quando un fascista e un tedesco vennero a requisire la batteria dell’auto di mio nonno Abbondio – scomparso prematuramente anni prima della mia venuta al mondo – o del pestaggio subito dagli adulti durante un proibitissimo funerale laico, o di quando il nonno, pur essendo antifascista, impedì ai partigiani di fucilare per vendetta un vicino di casa) o i mille episodi del servizio militare (ufficiale di complemento nel profondo sud), o quello incredibile e sconcertante sull’anziano motociclista svizzerotto del Canton Ticino, sbucato all’improvviso da uno stop, a cui salvò la vita evitandolo per un soffio, e che per tutto ringraziamento gli ringhiò dietro “’Talianàsh bastàrd!”, così come mancano le nascite dei figli, le vicissitudini del trasloco da Laveno a Gemonio del 1974, il viaggio a Parigi coi colleghi e quello a Firenze con la mamma per il decimo anniversario di matrimonio, le felici vacanze al mare con la famiglia, e le sue brevi ferie autunnali per la raccolta delle olive in Toscana presso un piccolo podere di amici carissimi, o ancora le due rapine nella banca in cui lavorava e che non avrebbero potuto essere per lui più diverse, perché in una venne sfiorato da un proiettile partito inavvertitamente dall’arma di un criminale pericolosamente nervoso, mentre nell’altra cominciò tutto mentre era al gabinetto e lì decise con saggezza di rimanere. 

In realtà, la cronaca di almeno una delle due rapine doveva far parte di un secondo corpus di racconti a suo dire misteriosamente smarriti, che diventarono il cruccio dei suoi ultimi anni (al punto che adesso spero quasi di non trovarli mai, perché mi sentirei amareggiato e in colpa per non essere riuscito a trovarli prima). Motivo in più per decidere non solo di pubblicare almeno questi undici racconti, ma soprattutto di farlo con un editing praticamente nullo e limitandomi a correggere eventuali refusi (ma non ce n’erano, ci aveva già pensato lui, con una scrupolosità e una dedizione che devo aver ereditato), per rispettare in modo assoluto, con umiltà e con amore, ogni singola parola scelta da lui. 

E poi, forse, questa assenza di storie “maggiori” vuole essere una lezione anche per me. Per ricordarmi che un racconto non deve essere qualcosa di sensazionale, ma un’estemporanea pennellata dell’anima, sanguinolenta e lieve.

Papà Pierluigi nel 1989

Dalle storie che non ci sono, veniamo (Finalmente!, dirà qualcuno, Meno male che odiavi le prefazioni!, dirà qualcun altro) a quelle che ci sono.

Il racconto di apertura, Il Pincìn, dove un bambino perso nelle fantasie della sua battaglia di soldatini viene bruscamente riportato alla realtà dall’intrusione di un rozzo mercante di bestiame che gli calpesta e distrugge le armate senza prestarvi la benché minima attenzione, si conclude con un anatema contro “quelli della sua stirpe”, e mai sapremo se papà intendesse con questo dire tutti i commercianti, o tutti gli energumeni maleducati, o semplicemente tutti quegli adulti incapaci di provare rispetto e considerazione per il mondo dei più piccoli. Gli fa da contraltare Il berretto del Panighini, dove si narra di una visita mille volte più simpatica e divertente (ed è qui che troveremo il magico zio Enrico, nel ruolo di generoso mescitore di vino). Nel riuscitissimo Le scarpe, le querule, insistite e quasi aggressive pretese di un pover’uomo non generano in mio padre ragazzino un senso di fastidio, bensì il dispiacere di non averlo potuto aiutare. Io e il calcio è una chicca che spiega la genesi del cattivo rapporto fra lui e questo sport (solo da molto anziano era diventato interista, per colpa mia e delle partite che guardavamo insieme): come giocatore, da bambino riuscirà a farsi accettare nel gruppo dei compaesani solo nel breve periodo in cui sarà proprietario di un pallone di cuoio, mentre come spettatore di una partita amatoriale verrà redarguito da un giovanotto più grande per aver gridato erroneamente “cornak!” invece di “corner!”, termine a lui del tutto sconosciuto. Una storia di mutande è percorso da una maldestra goffaggine paesana che lo rende vivido e tenerissimo. Nello straniante e struggente La camminata, la poesia e la metafisica della natura diventano consolazione all’angoscia esistenziale di un uomo costretto a fare un lavoro che odia, ma sono anche preparazione di un agghiacciante finale a sorpresa. Nel racconto più vicino a noi nel tempo, Rottamazione, descrive in tono mesto e luttuoso (ma con sviluppi fra l’onirico e il fantastico) il giorno di fine dicembre del Duemila in cui portammo a rottamare la nostra vecchia Fiat Uno, facendo emergere una straziante tristezza nell’anima che io, che condivisi l’esperienza con lui, non fui allora in grado di cogliere, e che anzi ritenni solo mia. Ne abbozzai a mia volta un racconto, intitolato Il portachiavi, di gran lunga meno emozionante del suo. 

(Curioso, però: due separati racconti, l’uno all’insaputa dell’altro, sulla stessa comune esperienza, mentre fra di noi, ancora vent’anni fa, l’abisso d’incomunicabilità spalancatosi nella mia adolescenza continuava a essere quasi totale. Meno male che la vita ci ha concesso tanto tempo per rimediare, e per volerci finalmente bene. Come se solo dopo lunghi anni di attesa si fosse rotto un incantesimo maligno, e noi due ci fossimo alla fine ritrovati e conosciuti. Una sorta di parabola del figliol prodigo raddoppiata, perché valida in egual misura per entrambi: “Bentornato, figlio”. “Bentornato, papà”. Ma peserà sempre in me il rammarico di non essere riusciti a capirci e apprezzarci anche prima. Forse perché – ed è questa la vera, folgorante rivelazione finale – eravamo troppo uguali?)

Completano la raccolta Il Ricu Bel, Viaggio a Milano e Verme della terra, sui quali non mi soffermo non perché siano meno significativi, ma per non rendere la prefazione più lunga del testo. A voi scoprirli e gustarli in tutta calma.

Il racconto che ho voluto lasciare per ultimo, Il pettirosso, è talmente bello e toccante da non aver bisogno di una sola sillaba di presentazione.

Anche visto da fuori, mio padre appariva alle altre persone per quello che era: un uomo buono, dall’indole generosa e sensibile, un ateo più “cristiano” di tanti sedicenti cristiani, insomma quello che si dice un buon diavolo, magari elusivo, riservato e un po’ burbero ma rispettoso di tutti, lavoratore non fanatico ma impeccabile e preciso, capace di ogni sacrificio per il bene di sua moglie e dei suoi due figli. Da lontano però – e ahimè per lungo tempo pure da vicino – tutto questo poteva venire adombrato dal depistante cliché del bancario arido, privo di romanticismo e incapace di esprimere le emozioni, quando invece era, come capita purtroppo a tanti, eroico prigioniero di un lavoro che non c’entrava niente con lui. Immaginatevi il mio sbalordimento allorché, qualche anno fa, emersero dalle polveri della cantina questi inaspettati racconti tutti suoi! Perché invece, in queste pagine, salta fuori la sorpresa di una profonda tenerezza, di un genuino e infantile stupore nei confronti della natura e di tutto ciò che è bello, ma anche una sincera e accorata attenzione per le persone meno fortunate, per i poveri diavoli schiacciati dalla povertà, dalle circostanze o dal lavoro (il Ricu Bel, il Panighini, l’uomo dalle scarpe rotte) e insieme a ciò si rivela un animo fragile, travagliato e sentimentale, spesso malinconico, e un luminoso talento per la narrazione che riesce a farlo essere un tutt’uno col figlio scrittore. Che abbia sacrificato questo scrigno di potenzialità per me (anche per me) è qualcosa di talmente immenso che non mi basterebbero sette vite per ringraziarlo, ripagarlo e rendergli l’omaggio che merita.

Leggetelo e vogliategli bene, allora, perché il mio adorato vecchiettino, anche se apparentemente schivo e refrattario alle carezze, meritava tutti gli abbracci e tutti i baci del mondo.

Per lavorare a questo progetto ho posticipato di mesi il mio nuovo romanzo. Felice di dedicarti il mio tempo e le mie energie. Perché era il minimo che potessi fare per Te. E allora accetta, papà mio, questo libriccino come un regalo di compleanno che ancora una volta ci facciamo a vicenda. Mentre lo confezionavo, con le mie mani e le tue parole, il cuore pompava lacrime al posto del sangue. Ma in fondo erano lacrime bellissime, e dolci. Colme d’amore e di riconoscenza. Un distillato di affetto.

Che altro dirti, se non che il più grande onore, per me, è portare il tuo cognome, insieme al nome, insolito da queste parti, che proprio tu hai voluto darmi? 

Gemonio, 26 maggio 2023


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martedì 21 marzo 2023

Il cinema italiano è vivo e ci emoziona – IL SIGNORE DELLE FORMICHE (con Leonardo Maltese, Luigi Lo Cascio, Elio Germano, regia di Gianni Amelio, 2022)


L’agnello giace teneramente abbracciato col lupo. L’agnello dorme, e sta facendo un bel sogno. L’agnello non sa che sarà mamma pecora a sbranarlo, annullarlo, distruggerlo.

Questa non è una (tardiva) recensione: è la mia dichiarazione d’amore per un film. Un film che mi ha scombussolato, rapito, indignato, intristito, esaltato, commosso, turbato nel profondo. Perché se la brutta notizia è che la narrativa italiana è moribonda (grandi editori che gareggiano nel maramaldeggiare, propinandoci autori ora di settimo ora di ottavo livello) quella buona è che il cinema italiano sembra più vivo che mai, e più che mai capace di regalarci forti emozioni. O almeno è quanto fa Gianni Amelio con questo suo capolavoro.

La storia fra Aldo Braibanti (un impeccabile Luigi Lo Cascio), scrittore, intellettuale eclettico, studioso della vita delle formiche, e il giovane Ettore Tagliaferri (uno splendido Leonardo Maltese), maggiorenne e innamoratissimo, parrebbe inattaccabile persino nella sordida italietta baciapile (o succhiabalaustre che dir si voglia) degli anni Sessanta (là fuori è già l’epoca dei Beatles, eppur non si direbbe: qui da noi, pur nel fermento di tante nuove idee, si respira un clima lugubre, plumbeo e intimidatorio da inquisizione bifolcoreazionaria). E invece verrà doppiamente distrutta, con vigliacca manovra a tenaglia, dalla famigliola del ragazzo (madre bigotta, fratello braibantiano deluso, padre relitto bellico). Dapprima col vergognoso crimine dell’internamento coatto in istituti infestati di suore e di pseudodottori dall’ingannevole vocetta melliflua, e col debole per pratiche nazistoidi come l’elettroshock, che devasteranno l’anima e la vita di Ettore. Dopodiché l’assassinio (perché di questo nella sostanza si tratta) verrà completato dal sistema giudiziario (che Braibanti definiva non a torto nei suoi scritti “grottesco”) che pur di persegui(ta)re l’omosessualità non esita ad appoggiarsi a un assurdo reato previsto dall’articolo 603 del codice fascista. Infatti, non potendo processare apertamente la “devianza” dei cosiddetti invertiti (che nei codici di allora non veniva mai neppure nominata, poiché si dava per scontato che ogni italiano fosse un machoide sturapassere) Aldo Braibanti, in un procedimento farsa, viene riconosciuto colpevole di “plagio” nel confronti del giovane Ettore, e condannato a nove anni di prigione (il pm, con la bava alla bocca, ne aveva chiesti quattordici, alla fine ne sconterà “soltanto” due per via dei suoi meriti di partigiano, altra ironia per uno che aveva combattuto le dittature e viene castigato e poi parzialmente graziato da una società ancora pervicacemente criptofascista – e lasciatemi dire che il “cripto” l’ho aggiunto per essere magnanimo: come non pensare alla celebre battuta di Ennio Flaiano, secondo cui, in Italia, i fascisti si dividono in fascisti e antifascisti?)

Gianni Amelio non ha paura (per fortuna!) di prendere posizione, né di caricare troppo i personaggi negativi. E ce ne sono a vagonate, a cominciare dalla Madre, che pur nella sua misera e ignorante mediocrità può ambire a far parte della top ten dei peggiori “cattivi” della storia del cinema. Trucemente impegnata nella missione di soffocamento/castrazione/uccisione del Figlio (ben simboleggiati dall’imposizione degli studi di medicina a un ragazzo che vorrebbe diventare un pittore – a quanti è successo? a quanti ancora continua e continuerà a succedere?), non le sono però secondi il fratello represso e vendicativo, la suora avida e inconsapevolmente anticrista, che brandisce la croce come fosse una scimitarra antiamore, disonestamente ignara, come tanti omofobi sedicenti “cristiani”, del fatto che Gesù amava Giovanni, e poi l’albergatrice infame, il medicastro fulminatore, il giudice viscido e iniquo, il pubblico ministero caricaturalmente razzista, l’avvocato inetto, il direttore di giornale pavido lecchino di cinghiali sovietici…

Fin dalla sua prima apparizione, lo spettatore più sensibile non può mancare di lanciare improperi alla Madre. Anch’io l’ho insultata da subito a voce alta, incapace di trattenermi. Questo fa di me uno spettatore infantile, sempliciotto e manipolabile? Può darsi. Ma se è vero che per farsi creatore di mondi nuovi l’uomo deve diventare prima cammello, poi leone e infine bambino (le tre metamorfosi di Friedrich Nietzsche, citate dal Braibanti in una delle tante scene in cui l’Amante del Discepolo è anche Maestro dell’Amato) io credo che ciò debba valere a maggior ragione per chi di tali mondi voglia essere fruitore nel modo più totalizzante, più onesto, più generoso, più appassionato e più fecondo. E mi viene da dire che forse il più infantile dei fruitori di arte è proprio lo spettatore ideale di film: stupito ma non stupido, volutamente disarmato ma non sprovveduto, infatuato ma non fottuto, disposto a lasciarsi trasportare da situazioni che sì, sembrano fatte apposta per estorcere emozioni (la meraviglia di un amore clandestino e contrastato, l’amara tragedia del trionfo dei “cattivi” su tale amore, trionfo che però non potrà cancellare quei mesi, o giorni, o attimi che di sicuro contano mille e mille volte più delle intere vite messe assieme dei tanti cessi umani antagonisti). Tutto il resto è critica, nella sua forma più saccente, sterile e ostile.

Il film comincia come un colpo contundente: se l’esterno notte romano in cui i protagonisti della storia si recitano l’un l’altro poesie d’amore poteva sembrarci l’inizio di un idillio, ne costituiva invece l’apice, un apice quasi coincidente con la fine, perché nella spietata, atroce, irreparabile sequenza successiva l’agnello verrà strappato con violenza dal nido d’amore del lupo. In seguito ci viene restituito piano piano il respiro, mostrandoci il prologo della storia, attorno al laboratorio artistico-culturale messo su dal Braibanti nel bel mezzo della campagna emiliana. Ma quando poi vediamo i due sbarcare nella (in apparenza) più accogliente Roma, a quel punto sappiamo già che trattasi di felicità con countdown incorporato, e siamo quasi avidi e gelosi di ogni attimo che potranno vivere insieme prima di precipitare per mano altrui nella rovina e nel disastro.

Tra i pochi a interessarsi della vicenda e a prendere a cuore la sorte del Braibanti ci sono un giornalista (Elio Germano), omosessuale nascosto e impaurito ma non represso, e una sua cugina attivista, ben contenta di sacrificare il legame nascente (scampato pericolo?) con un cretino del sud convinto che “per gli invertiti le strade sono due: o si curano o si ammazzano”.

Scena più struggente (ancor più del fugace reincontro/addio fra Ettore e Aldo subito dopo il funerale della madre di quest’ultimo – altro bel personaggio: sofferente ma serena, dignitosa, coraggiosa) è l’inattesa testimonianza di Ettore verso la fine del processo. Devastato nel corpo e nello spirito, apparizione penosa e quasi spettrale, il ragazzo è però lucidissimo nel difendere Aldo dall’imbecillità delle accuse. Una difesa che il diabolico pm ritorcerà contro l’imputato, facendola apparire come ennesima riprova del pesante e indelebile plagio che il giovane amante avrebbe subito.

In fin dei conti, un film che ti fa rimanere male. Ma è un male di cui non si può non essere affettuosamente e orgogliosamente grati al regista e agli attori tutti.


lunedì 30 gennaio 2023

Papà

Caro, meraviglioso papà: oggi è il mio compleanno, ma non potevo aspettare che venisse il tuo, il 26 maggio, per parlare di te. E allora voglio farmi questo regalo: ricordarti con qualche pensiero da far leggere agli amici.

"Igi", il mio teppistello 
 all'età di 12 anni

Il 16 novembre 2022, verso le quattro e mezza del pomeriggio, mi succede una cosa che credevo potesse esistere solo tra fratelli gemelli, non tra padre e figlio. Dopo un paio d’ore di passeggiata lacustre sto salendo verso il parcheggio per tornare alla macchina, quando all’improvviso avverto uno strano dolore alla parte superiore della gamba destra, di un’intensità e di un genere mai provati, che mi fa procedere con una certa fatica. Per brevi attimi mi paralizza proprio. Devo fermarmi sul marciapiede, la gamba rigida non mi risponde più. Poi la sensazione svanisce. Penso a un problemino muscolare (ma anche se morde come un crampo non sembra esattamente un crampo, è di natura completamente diversa), e do la colpa alla lunga passeggiata, un’abitudine che avevo perso, e che ho ripreso oggi nella speranza di mettermi a posto con lo stomaco. E invece proprio in quel momento, a pochi chilometri di distanza, mio papà cadeva sull’asfalto nella strada davanti a casa (era uscito in mia assenza per fare una cosa che gli avevo sempre proibito di fare) e si rompeva il femore. Della gamba destra. Ma quando arrivo, ignaro di tutto, devono averlo portato via da poco, e lì ad aspettarmi non c’è nessuno, dando così origine a minuti da incubo. Eravamo d’accordo che con due colpi di clacson sarebbe sceso ad aprirmi lui, ma dopo aver suonato aspetto e aspetto e il portone non si apre, resta chiuso. Scendo dalla macchina. Ho le mie chiavi, e sarebbe stato meglio non averle. Apro la porta sull’incomprensibile e sul terrorizzante. Vedo per terra del cotone insanguinato. Una sdraio sbattuta in mezzo al garage (penso per farmi capire di non entrare con la macchina, in realtà l’avevano usata come barella) e altre cose fuori posto. Sembra la scena di un’aggressione. Corro chiamandolo e già quasi piangendo, prima verso la lavanderia, poi su di sopra, dove a parte il gatto sul cuscino grande in sala non c’è nessuno, proprio nessuno. Sconvolto, ritorno fuori in strada. Vado al cancelletto. Nessuno in giardino. Nessuno nei dintorni. Nella cassetta delle lettere le sue chiavi di casa. Finalmente la voce di un vicino. In breve mi racconta della caduta, dell’ambulanza, del codice verde. Mi precipito al pronto soccorso (l’ospedale di Cittiglio, dove siamo nati io e mio fratello e dove è morta la mamma, dista meno di un chilometro).

Sto un po’ accanto a te. Sei disorientato, e hai paura di venire sgridato per la cavolata che hai fatto, e che mi hai appena confessato subito dopo esserti inventato un’altra panzana. Ma io ti accarezzo la testolina e dico che sei già perdonato. Dalla sala d’attesa affollata in cui m’hanno fatto tornare, tendendo l’orecchio capto le parole “ghiaccio e antinfiammatorio”. Ma non stavano riferendosi a te, sarebbe stato pretendere troppo. Insomma rottura del collo del femore. E dopo tre giorni l’operazione, andata benissimo. Ma poi…

Giovane uomo innamoratissimo della sua Lidia

Diciannove anni fa, negli ultimi suoi giorni, la mamma era preoccupata per i nostri caratteracci: “Questi due senza di me si scannano”. E invece, mese dopo mese, anno dopo anno, un crescendo di concordia e di giorni sereni e felici, con tutti gli alti e bassi dell’umana debolezza. Quanto affetto, quanta tenerezza, quanto divertimento (più invecchiavi e più diventavi simpatico e spiritoso, ti adoravano tutti, avevi subito conquistato anche le infermiere dell’ospedale, tranne una su cui stendiamo un velo pietoso), e quanta compagnia ci siamo fatti: eri mio padre e mio amico, mio alleato e mio fratello, ma eri anche il mio bambino, che accudivo e coccolavo e proteggevo (non abbastanza, a quanto pare). Quando stava per iniziare un film e appariva la dicitura “bambini accompagnati” io scherzosamente alzavo la mano e dicevo “Ci sono qua io”, e tu annuivi e sorridevi. Quanti bei momenti insieme: le passeggiate, i film, i documentari e le partite alla tv, i tuoi appassionanti racconti dei tempi lontani, e poi leggere gli stessi libri (lo chiamavi “il pacco libri” quello che ogni anno facevamo arrivare da ibs attorno a San Nicola, stracolmo di romanzi e dvd). E poi la casa da mandare avanti insieme, e il gatto Isidoro che in apparenza ti andava poco a genio, ma poi eri proprio tu a dargli i vizi come i bocconcini di prosciutto cotto durante le nostre frugali e intime cenette. E le indimenticabili vacanze al mare, dove fino a 85 anni, circa tre e mezzo prima della fine, ancora ti facevi le tue nuotate e poi corricchiavi sulla passerella per andare alle docce, il nostro amato stabilimento balneare, sempre lo stesso, dove ogni giorno si pranzava guardando il mare luccicoso e il verde della pineta, e dove eri la mascotte di tutti, benvoluto da tutti, tranne quelle rarissime eccezioni che sempre ci saranno nell’umana varietà. Ricordo un non simpaticissimo cameriere che un giorno sparlò di noi non accorgendosi che io ero seduto lì vicino e gli davo le spalle: “Quelli che sembrano due froci”. Proprio a te, papà, che avevi sposato una delle più belle ragazze di tutta la provincia. Finsi di non aver sentito. Ci rimasi malissimo e provai uno stupido imbarazzo, e invece, ripensandoci adesso, che splendido involontario complimento ci aveva fatto quel piccolo uomo!

Lungi da me dare tutte le colpe ai medici, o diventare una di quelle persone che fanno causa agli ospedali. Ma nitida è in me l’impressione che questi soggetti, pur quasi tutti umanamente ottimi, stessero sempre due o tre passi indietro rispetto all’emergenza. Subito dopo l’operazione mi dicevo preoccupato per tutta quella tosse e tutto quel catarro, e loro mi rassicuravano dicendo che si trattava delle vie respiratorie “alte”. Alte un cazzo. Polmonite. Ma stavi lottando per farcela, contro quella brutta bestia, e stavi per essere trasferito nel centro per la riabilitazione. E poi, la mattina del 29 novembre, quel tampone fatto solo perché prescritto dalla prassi prima di un trasferimento. Positivo. Sia te che il nuovo compagno di stanza. Non si saprà mai chi ha infettato chi. La mazzata finale. Già quasi una sentenza. Diciamo così: se ti avessero mandato un killer, costui non s’è presentato armato di coltello, ma di mitra, bazooka e bombe a mano, mio povero papà. Altri nove giorni…

Quegli ultimi giorni mi hanno fatto far pace con la tecnologia, con quelli che avevo sempre definito “smerdòfoni”. Un’infermiera, più angelica che umana, ha stabilito un contatto tra noi e te attraverso delle videochiamate, che ci hanno permesso di non farti sentire completamente abbandonato in quella che era diventata una camera sigillata dove entrava solo personale medico vestito da astronauta, ci hanno dato modo di coccolarti a distanza, rincuorarti, persino farti sorridere…. Alla fine delle videochiamate ci si mandava i bacini. Mio fratello dice sempre che nelle due fatte con loro (io stavo in autoisolamento a casa nostra) era sempre me che cercavi, sempre di me che chiedevi. Per le chiamate con me veniva qui una delle mie fantastiche nipoti (proteggendosi con la mascherina, ma lei era abbastanza tranquilla perché negativizzata da poche settimane). L’ultimo contatto risale al 6 dicembre. Frammenti di dialogo: “Papà, sai che giorno è oggi? È San Nicola. Come regalo voglio solo che tu guarisca”. “Sei splendido”. “No, sei tu splendido! Ti voglio bene papà!”

La prima foto con me

Che magnifici anni mi hai regalato, meraviglioso e generoso padre! Tu non sei mai stato tipo da complimenti e smancerie, ma almeno un paio di volte mi hai detto che con l’essere sempre lì con te e per te ti avevo allungato la vita, e che senza di me non avresti saputo come fare. La verità è che sei stato tu ad allungare la mia, e che sono io che senza di te non avrei saputo come fare. 

Il prossimo 26 maggio avresti compiuto 89 anni. E allora com’è che sono straziato come se avessi perso un ragazzino?  Eri così vispo, così arzillo, così lucido. Eri così sicuro di tornare a casa che mi davi istruzioni su questo e su quello. “Oh, per quando torno…”

Per farci soffrire il più possibile, il destino ti ha portato via, di botto, proprio nel momento in cui avevamo ricominciato a sperare, a illuderci. Eravamo stati pronti a perderti sei notti prima. Quella sera, fra il primo e il due dicembre, mi aveva chiamato l’anestesista di guardia dicendo che avevi avuto una crisi, che il livello di saturazione nel sangue era bassissimo, che non tolleravi e rifiutavi il casco per respirare, accettavi solo la maschera dell’ossigeno e pure quella malvolentieri, e che se l’ipossia fosse aumentata avrebbe potuto solo aiutarti con una piccola dose di morfina. Io lo avevo ringraziato (non prima di avergli chiesto un altro vano tentativo per convincerti a mettere quel casco), immaginando che almeno te ne saresti andato facendo dei bei sogni, magari chissà, ritornare in viaggio di nozze a Positano con la mamma, dentro oceani di luce e di amore. Passai la notte con le luci accese, a vegliarti a distanza, senza dormire un solo minuto, appuntandomi l’ora esatta del prodursi di determinati segni, come il canto funereo di un uccello notturno. E invece ce l’avevi fatta, e a partire dal giorno dopo avevi cominciato a riprenderti in maniera prodigiosa. Ogni mattina chiamavo presto in ortopedia per informarmi su come avevi passato la notte. 

Sapevo che a casa tenevi una sorta di diario di bordo in cui segnavi meticolosamente su dei blocchetti, con tanto di orario, le cose che succedevano nelle tue giornate, compreso l’inizio della pioggia o il ritorno di un pallido sole. Ho sempre rispettato la tua privacy e non sono mai andato a curiosare (e per ora continuo a non farlo: lo troverei troppo doloroso). Ho fatto un’eccezione per le ultime righe di quel 16 novembre, in cerca di qualche indizio, di qualche spiegazione. Le ultime parole erano: “Alle 14.30 Nicola parte per Gavirate per fare una bella camminata”. Già, proprio una bella camminata. Potrò mai perdonarmi?

Il mio vecchiettino nei nostri giorni felici al mare

Alla fine ti ha ucciso Sant’Ambrogio. Ero andato a dormire alle dieci e mezza di sera, distrutto, sicuro di farmi una corroborante, lunga dormita, rinfrancato e fiducioso, perché anche se la situazione era grave sembravi davvero potercela fare. Se non tu, mio highlander, chi altri? In corridoio avevo lasciato accesa una plafoniera propiziatoria, perché trovavo magico e protettivo il bianco arco di luce che disegnava, illusoriamente, fuori da una finestra della sala. E invece, nel dormiveglia, il momento più brutto della mia vita: lo squillare di quello stronzo telefono. Il cellulare, che per anni e anni avevo sempre tenuto spento, il cellulare che l’infermiera ha scelto di chiamare perché al numero di casa temeva avrebbe risposto “la moglie”, mentre invece avrei risposto sempre io… “Purtroppo le devo dire che suo padre è deceduto”. Almeno, a quanto pare, ti sei come addormentato, senza accorgerti e senza soffrire. Solo dieci minuti prima le avevi chiesto dei fazzolettini di carta. Tutto questo pochi minuti prima che finisse il 7 dicembre. La maledizione del numero 7 nelle date di morte di tutto il nostro ramo Pezzoli. Nel mio ingenuo ottimismo pensavo che nel tuo caso il 7 sarebbe stato contenuto nel 2027. Una ragionevole dilazione. E invece…

Fin troppo prevedibile, fin troppo scontato, ch’io mi metta a parlare della tortura degli oggetti, e dei ricordi da loro veicolati. Ma così è. La tua lente d’ingrandimento, con cui t’aiutavi quando l’occhietto superstite era stanco. Il tuo berretto verde scuro, che ti preoccupavi fosse andato perso sulla scena della caduta e invece avevo recuperato ed era qui che ti aspettava a casa. Il ventaglio viola della mamma, che con gioia usavo, come lo schiavo di un sultano, per darti sollievo dalla calura estiva che soffrivi più di me (l’espressione felice e beata che ti si dipingeva in volto, ma bastavano pochi secondi e poi dicevi “Bene così, grazie”). Le tue pipe, anche se da tanti anni non le fumavi più. Il piccolo gufo di legno che tenevi sul comodino. Il tuo pennello da barba. I guanti gialli con cui a 88 anni e mezzo pretendevi di essere sempre e solo tu a lavare i piatti (io facevo da mangiare, ma tu volevi apparecchiare, lavare i piatti e preparare il rito del caffè per due con la moka grande, così come ci tenevi a occuparti della raccolta differenziata e persino di stendere i panni dopo che io avevo fatto andare la lavatrice, caricata piano piano da te un indumento alla volta, come facendo l’appello).

A renderti unico erano anche i tuoi mantra rassicuranti, come li chiamavo io. Sotto la doccia ti si sentiva chiamare a raccolta i tuoi cugini della Mirabella, tutti scomparsi da tempo perché come età sembravano più zii che cugini (mio nonno era l’ultimo di sette fratelli): “E il Luisìn, e il Giuanìn, e il Pasqualìn, tutti tutti in compagnia…” Dopo un po’ che ripetevi ‘sta cosa entrava improvvisa una voce diversa, simpaticissima, da cartone animato, con la quale dicevi: “Luisìn basta! Basta coi Luisìtt!”, dopodiché smettevi.

Una foto che fa male: il lieto fine pareva certo

Un pensiero che mi consola è il rapporto sereno, tranquillo, disincantato, di piena accettazione che hai sempre avuto con la morte, con l’evidenza del fatto che prima o poi dobbiamo andarcene tutti, da qui. La volta che ci spaventasti con quel malore il giorno di Natale (un fatto di cinque anni fa) con due svenimenti in rapida successione, subito dopo, sdraiato su un divanetto in attesa dell’autolettiga, eri sorridente, quasi lieto, dicevi che se è ora è ora, e poi ti mettesti a intonare filastrocche dialettali, come un vecchio pellerossa che canta la propria nenia funebre, con la differenza che le nenie dei pellerossa sono tristi e lugubri, mentre le tue filastrocche erano briose e divertenti, un Pippirimerlo (se non addirittura un Ciao!) alla signora morte, vista non come interruzione o rottura ma come parte naturale della vita (la parola virte, unione di vita e morte, che io stesso inventai tanti anni fa?) Per non parlare di quando, nei tuoi foglietti promemoria, se ti segnavi un appuntamento per una visita medica da fare di lì a qualche mese aggiungevi sempre sotto, tra parentesi, “se campo” (e non era scaramanzia, ma lucido realismo), o di quando ripetevi, col tuo spirito un po’ macabro, che il tuo prossimo indirizzo sarebbe stato “il loculo 47”, accanto al 46 della mamma – non fosse che nel frattempo la burocrazia ti ha pure fatto lo scherzetto di rinumerarli, e il mitico 47 è diventato 139. Ma è sempre lì, di fianco alla tua Lidia, e lì ti ho deposto il 20 dicembre, dopo aver dato un ultimo bacio all’urna con le tue ceneri, dopo averla cullata stretta stretta fra le braccia per tutta la semplice ma toccante cerimonia privata (da persona specialissima quale eri, non hai voluto un vero e proprio funerale).

Col fatto che per via dello spietato protocollo covid non ti abbiamo potuto vedere dopo morto, neppure da lontano, è come se tu fossi solo misteriosamente svanito, partito per un lungo viaggio senza avvertire. E così, alla struggente tristezza della perdita, si aggiunge la struggente e torturante speranza di una permanenza (che nel mio cuore comunque sarà tale finché avrò a mia volta respiro), di un dolcissimo ritorno. Come cantavano gli Alphaville in “A victory of love”: Hoping for your/sweet, sweet/return (rintocco di campana su “return”).

Mi manchi, papà.

Tutte le sere, prima di ritirarti nella camera matrimoniale, dopo la buonanotte aggiungevi quell’altra tua parolina, “Nucét” (la traducevi con “nottina”, anzi “nottino”, al maschile, nel senso di una dolce confortante notte di sonno profondo e ricolmo di bei sogni). Probabilmente andrò avanti a sussurrare “Nucét”, ogni sera prima di addormentarmi, finché non sarà giunto il momento di seguirti.

Pierluigi Pezzoli 
26 maggio 1934 - 7 dicembre 2022