"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

giovedì 28 marzo 2013

Numa Sosa & the Guachos - "Artista"



Questa non è una recensione, perché io, tecnicamente, di musica non capisco un cazzo. Per esempio, manco sapevo dell’esistenza di un genere chiamato Latin Pachanga, che è per l’appunto quello a cui fanno riferimento i Numa Sosa & the Guachos.
Ma di questo giovane e interessante gruppo (di cui fa parte un ottimo musicista come Gregorio Arioli – da molti di noi conosciuto come il blogger Greg Petrelli) mi era già capitato di postare il video di “Non voglio te”, impreziosito dall’ottima animazione realizzata da Lucia Bulgheroni. Semplicemente perché mi era piaciuta e mi piace la loro proposta, che unisce musica gradevole e ben suonata a testi all'insegna di una accattivante mescolanza fra italiano, spagnolo e inglese, e soprattutto è in grado di emozionare, che è poi il fondamentale scopo per cui l’Arte esiste.
Sonorità sudamericane e buoni testi, dicevo, eppure di estrema semplicità: “Quel che so dell’Amor è che schiocca baci di bocca in bocca, libero da pudori e ipocrisia." Niente di troppo astruso o concettuale, ma tante frasi come questa che potrebbero fare da colonna sonora a tanti miei scritti.
Numa Sosa & the Guachos sono: Numa Sosa (voce e chitarre), Michele De Leo (chitarra solista), Jacopo Battaini (piano e tastiere), Gregorio Arioli (tromba), Giovanni Franzetti (sax tenore e voce), Francesco Marchese (basso), Stefano Marinucci (batteria e percussioni). La copertina dell'album è del pittore Kirka.
"Guachos" letteralmente sta per "orfani", ma significa anche e soprattutto scapestrati, sbandati, balordi, ragazzi cresciuti per strada.
Che altro aggiungere? Direi solo questo prezioso link, che vi permetterà il preascolto parziale di tutti i brani, e vi darà la possibilità, se vorrete, di acquistare sia l'intero album che i singoli pezzi.
Buon ascolto e buona vita. Rasserenata dagli Artisti. E da questo piacevole "Artista".

venerdì 22 marzo 2013

Assaggi di romanzi inediti - da "GIGOLÓ PER CLIENTE UNICA": prima metà del capitolo 3



3.

Gli incisivi della Jena



Ho avuto sedicianni, e ne sono uscito vivo. 
Il calendario diceva 1983, ed eravamo noi la fauna tracimata dagli steccati del liceo di Cuviate all’una meno venti, noi la sfilacciata e indolente processione che traversava i binari un quarto d’ora più tardi, come giocando alla roulette russa col sopraggiungere del treno. Non ci si crederebbe: già stanco di tutto, della vita avevo piene le tasche, ma ero solo un ragazzino. 
L’83, e ogni giorno feriale messo lì per dispetto dagli dèi dispettosi ci si trascinava placidi e afflitti lungo quell’ultimo tratto in pavé. Ci si inerpicava soppesando la sete e le borse di merda su per la scala col corrimano roso dalla ruggine. Ci si piegava per sgusciar sotto alla sbarra biancorossa del passaggio a livello. E ci si avventurava in apnea nell’approssimarsi di un brivido che non diventava paura, o forse sì: la curva era cieca e muta, e a vomitare la motrice dalle fauci d’acciaio sarebbe stata, da un momento all’altro, una tetra galleria. 
Abitudine pericolosa ma obbligata, tutt’altro che smargiassa: il treno proveniente da Varese fermava sul lato opposto, non esistevano sottopassaggi, e rimanerci non c’era ancora rimasto nessuno.

Sedicianni: ne sono uscito senza suicidarmi, e ancora non ci credo.
Settembre, e il branco che siamo, a prima vista uniforme, è quanto di più variegato si possa immaginare. 
Bambini sciamano spintonandosi allegri nella brezza di soffi lacustri al profumo d’uva: sono quelli del primo anno. I secondini li riconosci subito. Volendo sembrare grandi e seriosi, è facile coglierli a coppie filosofeggianti o a coppiette sospiranti. Queste ultime solo etero, come si conviene – stucchevoli, nella loro pedissequa obbedienza, e rese più pacchiane dall’essere teenagers: con tanta dovizia di assaggi e brividi omoerotici a portata di cuore, per la riproduzione animale c’è tempo. O no? Quelli di quarta e di quinta sembrano già uomini fottuti dalla vita. Tra loro c’è gente con la barba, e c’è perfino un tale, patetico e buffo, che per darsi un tono fuma la pipa. Fa parte di un quartetto che chiamiamo “i segalitici”. Noi che facciamo la terza siamo i più pecorecci e compatti. Più spossati dei primini, più numerosi dei quintini. È stata la nostra classe, due anni fa, a inaugurare una monca e derelitta sezione C. 
L’unica commistione di gruppi è data dalla presenza fra noi del quattordicenne Alessandro. Gliel’ho concesso io, il diritto di cittadinanza. La cosa è sotterraneamente malvista: sono ancora tempi di moderato nonnismo, e “far saltare” quei primini del cazzo continua a essere, specie nei giorni inaugurali, qualcosa più di un modo di dire. Ma posseggo quel non so che chiamato carisma, e aiuto troppa gente in certe ostili prove scritte, perché mi si possa rinfacciare a brutto muso la protezione del fanciullo. Più o meno tutti lasciano correre. L’unico che si sia provato a obiettare qualcosa è stato Jekko Macho Col Cappellino Americano Da Pirla. Dagli altri, di tanto in tanto, un timido insinuare ("Ma... quel primino...?") o una debole tirata d'orecchie ("Dovresti stare di più con noi, con quelli della tua età").

Chi sembra poco intenzionato a correre, per il momento, è il treno. Il suo ritardo è regola. Forse è per via del ritardo che sui binari non è stato ancora maciullato nessuno. La puntualità può uccidere. Oggi il mio protetto è furibondo per un compito in classe andato a ramengo. Si aspettava un 7. Si è beccato un 2. «Jena puttana», borbotta con quelle labbra che dovrebbero solo dar baci, o al massimo lasciarsi un po’ infiammare dalla polpa dei fichi stramaturi. «Dice che ho copiato l’articolo di un giornale».
«E invece?»
«Invece… boh… sì, l’ho un po’ scopiazzato. Ma quella zoccola mi ha dato 2 perché le sto indigesto».

Alessandro ce l’ha con Federica Sarti di Italiano. Unica insegnante su livelli di decenza di tutto l’ignorantificio, è stata a malincuore battezzata “Jena” dalla Commissione Soprannomi. Cioè da me. Sono io che appioppo ‘sti nomignoli, veri marchi indelebili. Appena arriva un prof nuovo, tac!, mi riunisco, mi consulto con me stesso e delibero. Le mie decisioni sono legge. A detta di tutti, il mio capolavoro è il Visòdano di storia dell’arte: grazie all’accento ingannevole, sulle prime non lo capisci, che vuol dire faccia di culo. La Jena è Jena per quel sorrisetto sardonico che le screpola il volto quando sta per stangar duro. Ogni volta, prima di stampare sul registro un 4, o di elargire un Impreparato, la Jena sghignazza, beffarda e carogna. Sghignazza e trema. Non può evitarlo. È più forte di lei. Con me non ci prova nemmeno. Scelto lo scientifico per diventare ingegnere come lo zio Oswald di Brema, ti arrivo in terza e l’Italiano è l’unica materia che riesca a sopportare. Se c’è una cosa che ho capito è che piuttosto che fare ingegneria preferirei buttarmi sotto quel treno, e sul conto della Jena non ho niente da ridire. Solo questione professionale se ho marchiato anche lei. Ed è solo perché sono innamorato stracotto degli occhi neri di Alessandro se resisto qui, mansueto, ad ascoltare i suoi insulti che durano ormai dalla fuga dalle aule, mentre un soffio appena percettibile sembra adesso scaturire dai solchi delle traversine, e sfrusciare via poco più che rasoterra in un turbinio riavvolto su sé stesso, quasi fosse il respiro mandato avanti dal treno ancor lontano. Qua e là, manifesti pubblicitari strappati o scarabocchiati raccontano di una stazione frequentata pressoché in esclusiva da questa irrequieta fauna che siamo noi.

Federica Sarti doveva aver girato da non molto la boa dei quaranta, ma dimostrava l’età di una nonna. Non aveva cura del suo aspetto. Non le importava. Spendeva nulla in cosmetici e messimpiega, poco più in abbigliamento da upim, e quasi tutto il resto in libri di narrativa. Che amava poi recensire per noi in chiusura di lezione. Non doveva comprare meno di tre romanzi nuovi a settimana. Ripensandoci adesso, più che Jena avrei dovuto chiamarla Erasma, in onore di Erasmo da Rotterdam, le cui priorità di spesa somigliavano molto alle sue. Per i miei compagni era solo una zitella inacidita, una tardona che leggeva per l’incapacità di vivere, che stangava duro per l’impossibilità di scopare. Io ero uno dei due o tre della classe interessati ai suoi consigli, sempre sommersi dal montante brusio pre-campanella (non sgridava mai nessuno ma era vendicativa, chi faceva più casino se lo segnava, e lo stangava il giorno dopo), e per afferrarli dovevi drizzar bene le antenne. Venne da lì una delle mie prime letture adolescenziali, spassosissima. Esercizi di stile, di Raymond Queneau. Dicevano tutti che portasse la dentiera. La Sarti, non Queneau. Aveva il tic di questa smorfia molto larga, a denti serrati, e nel farla si passava il pollice e l’indice distesi ai lati della bocca, dall’alto verso il basso, come un uomo che si alliscia il pizzetto, e in questa smorfia digrignava denti troppo bianchi e troppo uguali, secondo alcuni, per essere veri, e inoltre si diceva che il tic, la smorfia, originasse proprio da un senso di fastidio per l’ingombro della protesi.
Se devo dirla tutta, a me già fin da allora la Jena m’intrigava. Sul serio. Avevo certe fantasie sulla Jena Federica che non avrei ammesso nemmeno sotto tortura. Non che fossi un gerontofilo, non lo ero proprio per niente, e in genere sfogavo le mie intemperanze ormonali pensando quello a cui pensavano tutti – pensavo a Heater Parisi, a Sukia, a Zora la Vampira, pensavo ad Alessandro, a mia cugina Gloria, visualizzavo Carriolina di Monaco, Rita Dalla In Chiesa, la sorella del compagno di banco, le amichette delle medie, e poi Tina Turner, Nadia Cassini, Lilly Carati, il compagno di banco, Minni Tettaporca, me stesso vestito da troia, il/la cantante degli Sweets. 
Eppure quella donna non so come mi attizzava.

mercoledì 20 marzo 2013

Pausa pipì: TI SCAPPA D'INVERNO? TIENTELA!




Stavolta non verrò a deliziarvi, come altre volte ho fatto, con splendide immagini delle mie passeggiate lacustri. Vi propongo invece una foto un po’ scialba il cui titolo potrebbe essere “Che cosa manca?”. Già, perché dovete sapere che in questo preciso luogo e in alcuni altri, d’estate, quando il solleone rovente e satanico ti disidrata, e non riusciresti a fare una pisciatina neppure se ti pagassero cento euro a goccia, trovano alloggio, a gruppi di due, tre, a volte quattro, i coloratissimi vespasiani portatili. Che vengono rimossi puntualmente all’arrivo dell’autunno, in attesa del ripristino a primavera molto inoltrata. Il motivo, pare ovvio, sono le moltitudini di turisti stranieri che affluiscono nella bella stagione. Bisogna pur far credere, a costoro, che l’italiA sia un paese civile (quasi) quanto la confinante Svizzera… 
Ma d’inverno i turisti stranieri scarseggiano, e del gelo che stimola le vesciche dei viandanti autoctoni sempre numerosi (molte donne, moltissimi anziani) pare non fregare un accidente a nessuno. 
Davanti a cotanta intelligenza, il mio uccello, e gli apparati idraulici a esso collegati, sentitamente ringraziano!

sabato 16 marzo 2013

Ecco, se dici così mi piaci già un po' meno...



Caro fratello Francesco,
ci tenevo a farti sapere che io, da agnostico e da spirito libero, ti ho accolto con gioia. Se non altro per il significato del meraviglioso nome che hai scelto (io lo auspicavo da anni, un papa Francesco, e mi pareva una provocazione impossibile!). E poi per il tuo viso onesto, il tuo vissuto recente, la tua vicinanza ai poveri, il tuo modo di proporti, le tue prime parole. Adesso, però, comincio già a leggere cose non belle e un po’ sconcertanti a te attribuite, come questa assurda frase: “Chi non prega il Signore prega il diavolo”. (??!!) No, non ci siamo.
Io, mi dispiace, non prego nessun ca*** di Signore. Ma sono un Buon Diavolo, credimi, caro fratello. 
E ce ne sono tantissimi altri, come me.
Mi rendo conto che un linguaggio simile si addice alle tue umili pecorelle, specie quelle sudamericane, assediate da Sette che si esprimono proprio con tali spaventevoli castronerie da esorcista. E mi rendo conto che il mondo è strapieno di gente cattiva dedita al male, al potere, al denaro (equamente divisa, mi permetto di dire, fra chi prega il Signore, chi prega altro e chi non prega). Eppure non posso non sperare che queste tue parole siano state riferite in modo superficiale dai soliti imbrattacarte. Che in fondo hanno già riferito malissimo, com’era prevedibile, quel tuo pensiero della “fine del mondo”. Era solo un modo semplice e simpatico per dire che venivi da lontano, ma loro non hanno saputo resistere alla tentazione di ammantarlo di misteriosi sottintesi apocalittici. Cavolo, “fine del mondo”: come non farci un titolozzo cubitale per vendere di più?
Comunque sia, ti rinnovo il mio benvenuto. (Fra l’altro, mi diverte molto pensare che il papa Francesco sia arrivato quattro mesi dopo la prima visita dell’eretico Zio Scriba alla Città Eterna, con tanto di ascesa al Cupolone, e di omaggio a Giordano Bruno). Almeno, tu sembri migliore di chi ti ha lasciato il posto. Non che ci volesse molto, a essere meglio di uno che parlava dei fratelli e delle sorelle omosessuali usando parole simili a quelle di Himmler.
Tu, almeno questo, cerca di non farlo. Mi raccomando. Non c’è bisogno che sia io a ricordarti che quel tuo Gesù (per me umanissimo, per te divino) parlava di Amore. Infinito e indefinito Amore, non soltanto famiglismo riproduttivo (che guarda caso Egli, chiamato “Esempio” dai tuoi correligionari, non praticò, senza contare che il suo prediletto si chiamava Giovanni, e non Giovanna…). 
Che tutto l’Amore del mondo, fratello Francesco, possa essere con te, con me, con noi.
Ciao. E fa' il bravo.

martedì 5 marzo 2013

ROMAIN GARY - "Mio caro pitone"




Romain Gary
Mio caro pitone
Neri Pozza
Traduzione di Riccardo Fedriga
Voto: 9+





Un romanzo atipico, che sprizza tenerezza da ogni poro della carta. Tenerezza e genialità: espressiva, esistenziale (soprattutto esistenziale), umoristica. Anche se chi si è trovato a leggere prima, dello stesso autore, quel capolavoro che è La vita davanti a sé, si rende conto che qui ci troviamo, probabilmente, un (sottile) gradino più in basso. 
Ma c’è poco da sottilizzare, davanti ai migliori. E poco da dire di mio, se non lasciar parlare le loro Parole.

La donna prese a tremare, e poi cadde a terra, stecchita, e quando la innaffiai con un po’ di Evian prese a dimenarsi e ululare, gli occhi fuori dalle orbite, tanto che credevo in tutta sincerità che sarebbe morta senza neppure fare le pulizie.

Quando è uscito gli ho detto che, sì certo, ero proprio un atto contro natura, come chiunque soffra perché manca di qualcosa, e che ero orgoglioso di esserlo e che quando si respira, lo si fa per aspirare a essere qualcosa e che aspirare è un atto trasgressivo, contro natura (come anche i primi cristiani, del resto) e che della natura, io, comunque, ne avevo pieni i coglioni, con rispetto parlando, e che avevo bisogno di tenerezza e di affetto e di amicizia e vaffanculo la maggioranza.

Avevo un tale bisogno di un abbraccio che fui sul punto di impiccarmi.

Tornando a casa, andai, come al solito, a sedermi accanto a un uomo distinto che m’ispirava fiducia in me stesso. Parve a disagio; lo scompartimento era mezzo vuoto e lui mi disse: «Scusi, ma non potrebbe sedersi da un’altra parte? È pieno di posti, no?» Sapete, è l’imbarazzo, per via del contatto umano. Una volta è stato persino divertente, io e un signore distinto siamo entrati insieme in uno scompartimento per Vincennes completamente vuoto e ci siamo seduti uno di fianco all’altro. Abbiamo resistito un po’, e poi siamo andati a sederci su due sedili separati. È l’angoscia.

Continuo ad andare dalle mie belle puttane e voglio qui dichiarare apertamente che uso la parola “puttane” nel suo più alto senso di riconoscenza, di pubblica stima e di Ordine al Merito…

«E poi tu, almeno, hai uno sguardo. La maggior parte della gente non ha niente negli occhi, sai, come le macchine che s’incrociano di notte coi fari bassi per non abbagliare»

Del resto, il mio problema principale non è mai stato quello di essere solo nella mia propria casetta quanto l’esserlo nei luoghi degli altri. La strada… nella regione parigina ci sono dieci milioni di usurati, e si avverte con evidenza la loro non presenza, ma io, personalmente, ho a volte l’impressione che siano cento milioni a non esserci…

Quando si parla di mutilati si pensa sempre alla guerra, ma se ne fa benissimo a meno.

In Florida i moscerini paralizzano il traffico sulle strade perché vanno a spiaccicarsi sui parabrezza delle automobili che li sorprendono in piena danza nuziale. Perfino i camion sono costretti a fermarsi, perché hanno i parabrezza ricoperti da milioni di minuscoli amori. I camionisti non vedono più niente, sono abbagliati, accecati. Sono rimasto sconvolto dalla quantità d’amore che ciò rappresenta. Ho sognato tutta la notte un volo nuziale con la signorina Dreyfus. Verso mezzanotte mi sono svegliato, e poi ho cercato di afferrare di nuovo il sogno, ma non ho fatto altro che sognare camion.

Ma siccome continuava a trovarmi sul suo pianerottolo, il saluto si fece via via più brusco, e un bel giorno smise proprio di salutarmi, mi passava accanto con aria irritata… Evidentemente non ero un massacro… Lui era un uomo dai capelli grigi avvezzo alla tortura in Algeria, al napalm in Vietnam, alla carestia in Africa, e io non ero su scala… Vi sono persone che sanguinano solo a partire da un milione.

Del resto, non mi aspettavo affatto che mi mettesse un braccio intorno alle spalle rivolgendomi uno di quei “come va?” che permette alla gente di disinteressarsi di te in due parole e di pensare ai fatti propri.

… c’è mancanza di carezze. Del resto, gli scienziati sovietici credono che l’umanità esista e che ci invii messaggi radio attraverso il cosmo.

Non saprei dirvi di più sul mio stato di confusione, in ragione appunto di tale stato.

Fino a quel giorno i nostri rapporti erano stati cortesi, perché quando si abita uno sopra l’altro bisogna sapersi evitare.

«Sì, insomma, è un’opera di lungo respiro» disse il commissario, e dato che nessuno sapeva di cosa parlasse vi fu un momento di speranza.

Mi si obietterà che vi sono, ovvio, i poeti che lottano eroicamente per passare attraverso, ma non sono considerati pericolosi, per via delle tirature limitatissime e dei mezzi audiovisivi incaricati di evitarli.

Da ragazzino, nella cameretta dell'orfanotrofio, la notte chiamavo come Assistenza un grosso cane mansueto che avevo inventato io stesso a scopo affettivo e messo a punto con un naso nero, due grandi orecchie d'amore e uno sguardo da errore umano; veniva ogni sera a leccarmi la faccia, ma poi mi è toccato crescere e lui non ha potuto farci nulla. Mi domando che fine abbia fatto, perché lui sì, senza di me non poteva davvero farcela.

E poi ci sono le piccole cose da nulla. Una lampadina che si svita lentamente per via del traffico là fuori e che comincia a lampeggiare a intermittenza. Qualcuno che sbaglia piano e viene a bussare alla mia porta. L'amichevole e benevolo glu glu del termosifone. Il telefono che squilla e una dolce voce di donna, molto allegra, che mi dice: «Jeannot? Sei tu,tesoro?» e io che resto in silenzio per un lungo momento, a sorridere, senza rispondere, giusto il tempo di essere Jeannot, e tesoro.