"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

giovedì 6 dicembre 2018

No-Saint Nicklaus, scopritore di Tal(i)enti

«Scrivere fu il suo unico modo di allenare il metacarpo e tutte quelle falangi»

Quest’anno ho deciso di usare il mio blog per fare un (minuscolo) regalo di Natale, o di San Nicola, o di Solstizio d’Inverno, o di cosa cavolo vi va di festeggiare. Un regalo ai miei lettori buongustai, e un regalo a una ragazza che lo merita, ma soprattutto ho voluto farMI un regalo per stare bene io stesso, perché come molti (o forse pochi) sanno è il donare, assai più del ricevere, che provoca la vera, incontenibile felicità.
Molte, fra voi che mi seguite, sono le persone che scrivono, e che scrivono bene, benone, benino. Ma Cristina Taliento è l’unica persona a cui sia andato a dire: “Tu scrivi divinamente”. E non essendo io un ipocrita né un ruffiano, né tantomeno uno squallido calcolatore del “do ut des”, se gliel’ho detto è perché lo pensavo. Cristina, come molti veri artisti, è persona umile e schiva, non ambiziosetta, poco propensa a mettersi in mostra (non sono neanche riuscito a contattarla per avere il permesso di questo post, e la sua recente latitanza dal blog e dai social mi sta anzi facendo un pochettino preoccupare, e volevo quasi rinunciare, ma poi ho pensato che era una cosa bella, e spero tanto che anche lei, se vi si imbatterà, vorrà considerarlo un piccolo bel regalo, una piacevole sorpresa). Se io anziché essere uno scomodo outsider, un due di picche (anzi, un due di lenticchie), visto nell’ambiente come una specie di folle e di appestato, fossi uno di quegli scrittoroni in grado di aiutare altre persone a pubblicare, mi impegnerei ad aiutare lei. Ma devo contentarmi di questo invisibile gesto, di questo message in a bottle gettato fra le correnti dalla mia zattera di carta. 

Cristina Taliento
Volevo anche buttar giù due righe di presentazione, ma non avrei mai potuto trovare parole migliori di quelle che Cristina usa per presentare se stessa nel profilo del suo delizioso blog Il ballo dei flamenchi (a proposito: è un blog che merita davvero, se vi capita fateci un salto!):
«Oh... sentite, è nata nel 1993. Le piacciono sapeste quante cose. Prima fra tutte, l’Umanità, quella fatta dagli uomini tristi e felici. Starebbe ore e ore a guardare il modo in cui sopravvivono, si ammalano, si innamorano, le espressioni che fanno quando inventano le loro bugie quotidiane, portando gli oggetti nei loro nidi. Le interessano le cose che dicono, quelle che non diranno mai. Vorrebbe riuscire a capire come funzionano i loro corpi e le loro menti. Per questo, scrive racconti e studia Medicina e Chirurgia». Ma è ora che mi levi di torno e lasci spazio a Lei, alle sue parole. Non avendo potuto chiederle di scegliere per me i suoi brani preferiti, e avendo dovuto alzar le mani in segno di resa davanti alle troppe, davvero troppe cose belle e toccanti che sobbollono nel suo blog come una calda sorgente sotto un laghetto ghiacciato, ho deciso di proporvi semplicemente l’ultima perla da lei postata, ormai quasi tre mesi fa. Sarete poi voi, se vorrete, a munirvi di setaccio per trovare altre pepite sul fondale di quel laghetto. Pronti per il viaggio? Andiamo:

Io e Genda
di Cristina Taliento

«Alcune sere, quando non sono impegnata a vivere, mi ricordo di quando scrivevo, dei miei personaggi e di tutto quello che la Tana significava per me, quando di parlare non mi andava e tutto quello che avevo era la mia fantasia. Non vivevo in un mondo parallelo, né tutto ciò che inventavo era davvero vivido, ma una frase che mi suonava bene in testa mi bastava per passare un bel weekend e una bella settimana. Io, i biscotti, i miei personaggi.
Genda era uno di loro, un personaggio, un matto scorbutico, vecchio poeta in esilio, zoppicante, si trascinava dietro la sua gamba e la sua malinconia. Lo odiavo. Gli volevo bene.
Genda era uno degli ultimi, un emarginato, anche se troppo orgoglioso per ammetterlo; e allora si metteva davanti a tutti, arrabbiato per i telegiornali e le idee politiche dei gatti che passeggiavano  sui muri.
Non litigavamo, io all’epoca ero piuttosto incline all’apprendimento e Genda mi elargiva con caritatevole perseveranza le sue lezioni di vita.
Dicevo: “ Noi siamo cuori sentimentali, ci muoviamo come alghe con la corrente. Basta un ormone e noi non siamo più noi”
Diceva: “Eh no! Siete voi eccome. Voi non siete fantasia a comando, voi siete proprio testosterone, serotonina, siete enzimi, siete piogge di sinapsi, cascate di potenziali d’azione. Siete cespugli di cellule mezze buone, mezze marce. Voi non fate altro che fraintendere il tramonto, idealizzare l’alba”.

Non riuscendo a ribattere, me ne uscivo con frasi come “ma questa è un’ovvietà“, anche se chiaramente, influenzata da quella solfa, divenni ben presto un pomodoro positivista di stampo liberale.

Ora non lo saprei più imitare, però quella sua rabbia era la cosa che mi piaceva di più e anche ciò che lo distingueva da altri miei personaggi come, ad esempio,  Jack Pavimento, l’Adolescente, Flacco Squidegno o il Cane Sentimentale. Genda aveva il Mondo sullo stomaco e anch’io, in fondo, ce l’avevo. A volte, seduti sul braccio di una gru, di notte, io e lui guardavamo il paese e la luna e tutto ci sembrava impossibile, ci sembrava che non ci avrebbero mai preso a Medicina, che Berlusconi avrebbe governato per sempre e che nessuno ci avrebbe mai davvero capiti, non così, giusto per, ma capiti, sul serio, veramente, anche se stanchi e in silenzio. Dubbiosi guardavamo il cielo, spogli dei nostri quotidiani modi di fare, ci abbandonavamo ai sogni – ognuno ai suoi – con gli occhi grandi di chi ha fame. Poche cose ci piacevano in fondo e parlare del futuro non era per noi.
Io avevo diciassette anni più o meno e lui di sicuro ottanta. Non lo so perché me l’ero immaginato anziano, forse perché volevo attribuire  una certa fragilità alla rabbia o, al contrario, accendere di fuoco la fragilità.

Ad ogni modo, crescendo, quel Genda via via si trasformò, sempre più razionale, più comprensivo. E la rabbia, che poi era simile alla mia di rabbia – alla rabbia di una ragazzina che da fuori non lo diresti mai – nel giro di pochi anni, svanì. Genda capiva e scusava, s’indignava ma poi si calava nei panni e perdonava. Quel matto, finalmente, si era dato una calmata. Per anni non l’ho più rivisto.

Eppure, m’immagino ad un tratto di salire sul braccio della gru una sera di queste, una di queste belle sere di settembre dove i grilli fanno gli arpeggi coi loro baffi e l’aria che arriva dai campi mi racconta come l’uva diventa vino. M’immagino io con la corona d’alloro in testa e un bel fiocco rosso, giacca e pantalone e un bicchiere di spumante in mano.
“Tieni” dico porgendo il bicchiere al Buio.
“Grazie” dice il Buio che, alla fine, non è altri che Genda.
“Ti sei laureata allora”
“Si, ma la strada è lunga, lo sai”. E rimaniamo in silenzio per un quarto d’ora. Nessuno dice niente e nessuno pensa niente. Non siamo più arrabbiati, anche se ogni tanto viene ancora ad entrambi la voglia di scappare di casa, zaino in spalla, fino alla montagna più alta.

Mi dispiace di aver abbandonato i personaggi, ma più di tutti mi dispiace per Genda, per aver smesso di dargli una voce.
A volte, un pensiero semplice è che il tempo porti assuefazione, faccia svanire i famosi ardori giovanili e, più in generale, ci faccia dimenticare chi siamo stati, quello che abbiamo provato, inventato. A volte sembra quasi come se sulla gru ci siano tante me di età diverse, una per ogni fase di vita, tendenti ad aumentare in numero a mano mano che invecchio. Ma come dicevo è un pensiero semplice, facile ma mica vero, perché in fondo è sempre e solo tutto dentro. Tutto quanto.
E, anche se il tempo per scrivere e quello per vivere attingono da spazi, dimensioni e sensazioni diverse, anche se la fantasia è un posto dove ci piove dentro e io corro a ripararmi sotto tutte le tettoie che mi capitano a tiro, mi sentirei di dire a Genda, qualora fosse preoccupato per il cambiamento della vera Cristina, che quella ancor più vera è sempre stata su questa gru, a occhi chiusi, sulle stelle.»

Che altro aggiungere? Solo questo: se in circolazione ci fosse ancora qualche editore munito di quella curiosità e di quella voglia d’esplorare senza le quali sarebbe meglio cambiare lavoro e smettere di fare danni alla narrativa italiana (per pigrizia, negligenza, insipienza o presunzione) lo invito a prendersi la briga di dedicare una bella giornata a visitare il blog Il ballo dei flamenchi e a saccheggiarne con piglio famelico almeno la sezione “Racconti”. Perché alla faccia di quei luridi pezzi di merda che a ogni piè sospinto mi danno dell’invidioso, io ho sempre fatto il tifo per le persone che meritano, e sempre gioito per i loro (sempre più rari) successi. E se Cristina, oltre alla splendida persona che è e al meraviglioso medico che sarà, dovesse diventare una delle Scrittrici italiane più lette, io ne sarei, semplicemente, FELICE.
Felice inverno a tutti voi!


venerdì 30 novembre 2018

Inferiorizzazione culturale. Qualcuno si offre volontario? Quasi tutti, purtroppo.

(Antidoti potenti contro l'inferiorizzazione precoce) 


Il fatto che Berlusconi si vantasse (sottovoce) di non far guardare la televisione ai suoi bambini dice TUTTO. 
Noi diamo a lui la colpa del declino mentale e culturale, ma lasciarsi inferiorizzare non era obbligatorio. Non era obbligatorio lasciarsi ridurre a una mandria di cafoni beceri e superficiali. Omologati e sguaiati e modaioli e chiassosi. 
Che a tavola ingeriscono spot invece di conversare. 
Con figli che si fanno le pippe sulla selezione estiva delle veline invece di scendere in cortile a giocare. 
Così come non sarebbe obbligatorio completare l’opera subendo una smerdofonizzazione sempre più precoce. Mettendo le perniciose protesi cerebrali in mano a povere creature che non hanno ancora imparato a parlare, e che hanno solo bisogno di qualcuno che gli racconti delle storie. Che non sono le stronzate su staminchiagram (anche la bella parola “Storie” ci siamo lasciati scippare!!!!). Ma l’inventarsi, o il leggere, delle favole.
Già, qualcuno che abbia ancora il tempo di leggere.
Qualcuno che sappia ancora leggere.
Già.



venerdì 23 novembre 2018

"Commiato degli uomini buoni" come idea-regalo per le prossime festività invernali.



[Quando pubblico una cosa molto carina ma che costa pochissimo, e propongo agli amici di farne un regalo di Natale, mi arriva spesso questa strana obiezione: “Grazie, ma come regalo le persone preferiscono qualcosa di più prestigioso, che rubi l’occhio e che costi di più”. Già: c’è di sicuro un sacco di gente che preferisce ricevere il nuovo volumazzo di Vespa, che magari non aprirà mai. Ma tutti voi che mi leggete avete parecchi amici intelligenti e buongustai, lo so, e allora sareste sorpresi dall’entusiasmo con cui apprezzerebbero una piccola perla come “Commiato degli uomini buoni”. È come regalare un fiorellino di campo invece di una brutta cravatta. La brutta cravatta rischiate di ritrovarvela il mese dopo al mercatino dei regali da riciclare perché sgraditi. Al fiorellino di campo non succederà mai.
(E se un fiore vi pare poco, di libriccini rari e sfiziosi se ne possono scovare d’ogni tipo, dalla narrativa alla poesia, e con questi comporre un bel mazzetto, confezionato con amore e su misura per l’anima di chi lo riceve, come sempre dovrebbe accadere facendo un regalo. Un regalo con cui fare migliore figura di quella che non fareste con mattonazzi che infestano tutte le vetrine).]

«Il cielo era un ventre argentato e gravido, rigonfio di fiocchi. E quando questi cominciarono a precipitare, sulle prime radi e incerti, e via via sempre più grossi e fitti, mentre ancora la vasca finiva lentamente di riempirsi, Bernhard Löwe ritornò con la mente alla placida gioia delle nevicate che osservava da bambino, da solo alla finestra, in estasi, le ginocchia su una sedia per poter appoggiare i gomiti al davanzale interno, com’era felice, e come gli piaceva perdersi nella danza felpata dei fiocchi che cadevano, ascoltarne la melodia silente, fissarsi con lo sguardo verso l’alto per lasciarsi ipnotizzare, perché se lo facevi abbastanza a lungo ottenevi l’effetto di ribaltare le sensazioni di movimento: non erano più i fiocchi che scendevano e atterravano con delicato ma percettibile rumore, eri tu che salivi, dentro un invisibile ascensore verso le nuvole e oltre le nuvole, una vertiginosa Ascensione atea verso nuove dimensioni.
Essere neve. Ma neve che sale.

In fondo, anche quella spaventosa frase sull’abisso poteva essere ribaltata: se scruti abbastanza a lungo nelle profondità del cielo, anche il cielo scruterà dentro te.»




Concludo regalandovi qualche dritta su altri romanzi brevissimi e brevi a cui attingere per comporre il vostro cadeau personalizzato:

AGOTA KRISTOF "Ieri"
BOHUMIL HRABAL "Una solitudine troppo rumorosa"
PAOLO ZARDI "Il signor Bovary"
ANNIE PROULX "I segreti di Brokeback Mountain"
RACHID O. "Cioccolata calda"
IVAN COTRONEO "Un bacio"
ERRI DE LUCA "Montedidio"
OGAWA YOKO "L'anulare"
LEONARDO SCIASCIA "Una storia semplice"
THOMAS BERNHARD "Camminare"
NICOLA PEZZOLI "Pazzoteca La Paz"
CARSON McCULLERS "Riflessi in un occhio d'oro"


lunedì 19 novembre 2018

Chiudersi fuori


Senza chiavi si è schiavi, e si rimane chiusi fuori. Senza intelligenza (nel suo originale significato di intelligere) non si gustano i Romanzi. Quando, in “Quattro soli a motore”, mettendo in scena le atmosfere di certe messe vespertine del mese di maggio, scrivo “le vecchie che non volevano morire”, il lettore un po’ sprovveduto pensa che l’impertinente Corradino stia dicendo “non sarebbe ora di schiattare?”, mentre invece ne sto descrivendo l’isterica e invasata pretesa di resurrezione e Paradiso – madre di tutte le superstizioni popolari, di tutti i fanatismi e di tutte le paure fomentate dal potere – l’abbarbicato voler persistere di ogni piccolissimo, meschino, peloso Ego in un sempiterno Io-Proprio Io-Sempre Io, con quel preciso corpo, quel preciso nome da difendere con le unghie, quel preciso codice fiscale, contrapposto al desiderio di dissolversi e sparire (o alla serena accettazione di provvisorietà e non individualità) di molti spiriti maggiori, anche quando profondamente religiosi.

Quindi, al di là di questo minuscolo esempio, stimolate e coltivate la curiosità per la lettura e la scrittura fin da ragazzini, perché è il Linguaggio il vero dono degli dèi all’umanità. 
O resterete chiusi fuori. 
A grufolare con un videogioco in mano, come quegli infermieri che torturavano i pazienti psichiatrici, beccati dalle telecamere a ribaltare una donna su sedia a rotelle per poter giocare più tranquilli. 
Forse, se avessero letto e capito Ken Kesey (per dirne uno), a quella donna avrebbero voluto bene. Forse, se avessero letto e capito Ken Kesey, la loro anima non sarebbe diventata una scorreggia, e il loro dna, con la sua doppia elica, non avrebbe virato come un elicottero rotto verso quello del più ritardato fra gli scimpanzé.


venerdì 16 novembre 2018

Edgar Hilsenrath - NOTTE


Marzo 1942. Sul ghetto di Prokov - città ucraina occupata dalle truppe romene, alleate con i nazisti - è sempre notte.

540 pagine di pugni nello stomaco. 
540 crude pagine che ogni persona intelligente dovrebbe trovare il coraggio di leggere. Un libro imperdibile, grandioso, terrificante, quasi intollerabile. E assolutamente necessario. Per capire dove possano arrivare l’abbrutimento e l’orrore. E per riuscire a scovare persino in essi una debolissima scintilla di speranza e umanità. Lo consiglio in particolare a Francesco Spinoglio, il buongustaio scrittore-blogger di Barcellona che apprezza Hilsenrath, Selby junior, Bukowski, Dan Fante, Pollock, Pezzoli (ma quest’ultimo nome fate finta di non averlo visto: è solo un intruso e un fallito), e grazie al quale ho potuto conoscere, qualche anno fa, questo splendido e geniale Scrittore, dalle nostre parti quasi totalmente ignorato (che strano…). “Nacht” è il suo romanzo d’esordio, che in Italiano arriva solo ora, con più di mezzo secolo di ritardo, grazie all’editore Voland, e allo splendido lavoro di traduzione di Roberta Gado.

(E sempre siano lodati gli editori che preferiscono le postfazioni alle prefazioni: quella scritta per questo romanzo da Paola Del Zoppo è molto interessante, e tutt’altro che superflua. Perché se è pur vero che nessuno ti impedisce di leggerla “dopo” anche se è una prefazione, o di leggerla “prima” anche se è una postfazione, a me le prefazioni appaiono sempre come un’invadente mancanza di rispetto, e di gusto, e di amorevole senso estetico nei confronti dell'entità Libro, del Testo e del suo Autore.)

«La vista sul Nistro era idilliaca. Al crepuscolo il colore dell'acqua si sfumava a metà tra il giorno e la notte, grigio e nero e marrone digradanti in un modo speciale; pareva persino che il fiume scorresse più placidamente. Nell'ora in cui il giorno volgeva al termine si aveva la sensazione che il Nistro fosse infinito, non provenisse da nessun luogo e scorresse verso il nulla, quasi fosse solo un fluire indistinto in un paesaggio silente e trasognato.
Due cadaveri galleggiavano pian piano verso valle: un uomo e una donna. La donna precedeva l'uomo. Sembrava un gioco amoroso, con l'uomo che cercava e cercava di raggiungere la compagna senza riuscirci. A un certo punto la donna virò di lato e presentò la faccia all'uomo. Questi ricambiò con la propria. La superò, il suo corpo urtò quello di lei.
I due cadaveri presero a mulinare, rimasero attaccati quasi volessero congiungersi e ripresero infine a galleggiare placidamente. Faceva sempre più buio. I due corpi erano lambiti dal vento che li accarezzava con la stessa dolcezza che riservava all'acqua, alla riva e ai campi di granturco sulla sponda romena.»



venerdì 2 novembre 2018

GIOCHIAMO A UN GIOCO (MA GIOCHIAMOCI BENE)


Da bambino, coi miei cuginetti, con soldi finti o anche senza soldi, per ingenua imitazione del mondo degli adulti si giocava “al negozio”. Un tavolo da giardino, un muretto, una panca di pietra, e ognuno aveva la sua bottega di mercanzie assortite: con foglie, sterpaglie e ciuffi d’erba diventavi il fruttivendolo, con sassolini e conchiglie il gioielliere o l’antiquario, mentre con giornali vecchi e Topolini avevi il più bello dei negozi: l’edicola. Se una bottega rimaneva troppo a lungo non frequentata, il titolare piagnucolava con gli altri cugini: «Dài, però facciamo che tu VENIVI, a comprare da me!»
Nel mondo adulto ho conosciuto, sia di persona che sui social, librai meravigliosi e libraie meravigliose. Gente sapiente, appassionata, piena di spirito d’iniziativa, vogliosa di organizzare eventi, incontri, presentazioni, col negozio pieno di titoli deliziosi e introvabili e la capacità di ordinarne al volo mille altri, e che non si lascia infestare la vetrina con troppo morchiume da classifica. Gente che mi piacerebbe facesse i soldi a palate, o almeno riuscisse a tirare avanti in modo più che dignitoso e con piena soddisfazione. 
Accanto a loro, parecchi librai inqualificabili, pigri, che di tutte queste cose non fanno nulla, che pretendono di campare sui dieci merdseller del momento, e che addirittura fanno ostruzionismo per ordinare su richiesta libri di editori piccoli ma ottimi, e ben distribuiti (gente che ha definito difficilissimi se non impossibili da ordinare i miei romanzi Neo, guarda caso distribuiti dal distributore più grande che c’è). Eppure questi sono sempre i primi a indispettirsi se poi il lettore, per fare presto, per avere più scelta, per risparmiare soldi, preferisce fare i suoi acquisti su internet (il babau ibs, il babau amazon…) È come se si mettessero a piagnucolare: «Dài, però facciamo che tu VENIVI, a comprare da me!» 
Te lo puoi scordare, cocco.
E quando sarai costretto a chiudere, non aspettarti la mia retorica scribacchina sulle librerie che scompaiono, o le mie lacrime di coccodrillo per il tuo strameritato fallimento. Perché a me è successo molto prima di te. Anche per colpa di gente come te.



sabato 27 ottobre 2018

PROPAGANDARE LA LETTURA? MAH: IO VADO CONTROCORRENTE PURE QUI

IO LEGGO (con o senza cancelletto del cazzo, ma direi proprio meglio senza) PERCHÉ mi nutre l’anima e la mente, e perché mi piace da impazzire, e chi non gli piace peggio per lui, e anzi, forse se non leggessero in troppi sarebbe pure meglio: si eviterebbe di pubblicare certa merda per speculare sugli orripilanti gusti della "ggggggente"…

domenica 7 ottobre 2018

Nicola Pezzoli - COMMIATO DEGLI UOMINI BUONI

Una delle proposte più carine e originali nel panorama narrativo europeo 2018 è questo libriccino di 79 pagine, contenente un microromanzo, un racconto e due poesie. Considerato anche il prezzo ridicolo (l’ebook costa come un caffè, il cartaceo poco più di due quotidiani da buttare via il giorno dopo) io non me lo lascerei scappare. Ma decidete voi, naturalmente.

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alle anime senza prezzo, né scadenza


«L'aria irrompe e scioglie tutto».
(Thomas Bernhard, Amras)


«Non era un sogno, né un film in bianco e nero, ma un nitido frammento di stupore bambino. Prodigio di tenebre inondate di panna, come una stalla a finestre murate trasmutata in cisterna di latte, in cui annegare, in cui rinascere. 
L’immagine era vera, era lì, davanti a quello che lui era stato settantanove anni prima, quando sullo stradone sotto casa aveva visto arrancare nella tormenta uno spartineve trainato da buoi. 
Dodici pariglie di buoi. 
Se solo riusciva a ricreare abbastanza oscurità e pace nel turbinio dei pensieri, se li vedeva passare accanto ancora adesso, quei muti fantasmi. Perché avere ottantaquattro anni nel buco del cuore del Secolo Cretino, pensò Bernhard Löwe, significava anche questo: vivere in un mondo ipertecnologico e becero, ma ricordarsi di uno spartineve trainato da una fila interminabile di spettri a quattro zampe dentro una valle pietrificata nel silenzio, proprio ora che in alcune città si sperimentava lo sgombero dei viali e delle arterie principali mediante spazzini robot.

Gli spazzaneve meccanizzati erano molto efficienti. Ma le dodici pariglie di buoi avevano gli occhi. Quarantotto occhi. Che lo guardavano. Perché il bambino stava lì, a pochi passi dallo spartineve, dalla fila di bovini e dai carrettieri che li guidavano, quattro o cinque uomini a piedi, stava lì perché aveva disobbedito al divieto della madre di uscire a giocare con quel vento e quella neve, e nel vederli sbucare dal nulla era diventato una statua vivente. Una statua di stupore. Non solo i buoi lo avevano guardato coi loro quarantotto occhi (gli occhi dei carrettieri non contavano, questo gli era chiaro) ma lui era sicuro che il coro a infrasuoni di quelle iridi pazienti e sovrannaturali – le sole vere luci di tutta quella scena – avesse voluto dirgli qualche cosa. 
Non aveva capito cosa. 
O non lo ricordava più».

giovedì 20 settembre 2018

Lieto e orgoglioso di annunciare...



Prossimamente


Su questo


Canale


Una nuova


Strepitosa


Autoproduzione


Del più pazzo


Generoso


Scomodo


Atipico


Ispirato


Coraggioso


Originale


Autentico


Strano


Talentuoso 


Outsider


Mai


Esistito.


Mantenetevi


A tiro


Di voce!

venerdì 7 settembre 2018

LE DITA SUL TASTO CHE SCOPPIA - Dichiarazioni di guerra ai profanatori dei templi dell’Arte

QWERTYUIOP… BUUMM!!

[Avvertenza d'obbligo per i cervelletti più piccini: qui ovviamente si scherza e si provoca: da queste parti la violenza e i violenti sono da sempre considerati un paio di gradini al di sotto della merda.]

UNO
Niente è più blasfemo della cattiva scrittura. Niente è più maledetto del Verbo balbettante di una mezzasega ambiziosa e raccomandata. Il mio sogno? Penne, matite, tastiere intelligenti e spietate, che esplodano in mano a chi scrive male ma pubblica "bene". 
Piazza pulita, e disinfestazione usurpatori.
Per essere più chiaro: le troverei giuste e sacrosante anche se scoppiassero, o si difendessero con scariche elettriche, mentre scrivo IO.
L’arte della scrittura esige (dovrebbe esigere) Rispetto. E divieto assoluto ai mediocri.

DUE
Uno scrittore moscio, convenzionale e politicamente corretto è come un pugile non-violento: può fare strada se il manager è coglione, il match truccato, i giudici corrotti e il pubblico ubriaco.

TRE
Ma se Silvio Muccino non mi è mai piaciuto come attore e regista (che almeno è il suo mestiere), perché mai dovrei dargli credito come “scrittore”? 
(E visto che oggi da noi i romanzi li fanno scrivere ai registi – che almeno dovrebbero essere un po’ meglio dei cuocuzzi e dei cantanti, zio cantante – un altro editore risponde con la Comencini. Qualcosa di nuovo? Nein: coppiettismo etero in crisi, miliardesima puntata. 2 maroni.)

(TRE BIS)
Il calciatore è tutto un altro paio di natiche. Il calciatore è uno dichiaratamente incapace di scrivere, e il suo libro è dichiaratamente opera di un ghostwriter o di un cronista sportivo. Per cui quando entro in libreria non mi capita mai di pensare al calciatore “autore” di bestseller come a un USURPATORE. Cosa che invece penso di molti, molti, moltissimi altri.

QUATTRO
Tutte quelle personcelle senza ispirazione e senza talento, che scrivono romanzetti “a tema” svolgendo prima la loro brava ricerchina sull’argomento, e poi per far vedere che hanno fatto i compiti (come a scuola) impestano le pagine di astrusi termini tecnici del tutto inutili (anzi nocivi) alla narrazione: perché non lasciano perdere?
(Ancor più deprimente il pensiero che dietro possa esserci un editor che non ha posto rimedio, o peggio ancora ha incoraggiato/imposto tale scempio.)
Documentarsi è spesso utile, a volte indispensabile. Ma se sei uno Scrittore, da quel lavoro di ricerca devi saper ricavare un prezioso succo concentrato, non una cascata di termini precisini, saputelli e irritanti. (Vedasi la parte medico-ospedaliera di “Non ti muovere”, uno dei libri più brutti e sgraziati che abbia mai letto).

CINQUE
A dispetto del bellissimo titolo (che infatti fu deciso dall’editore) “La solitudine dei numeri primi” è uno dei libri più brutti, balbettanti e malscritti che abbia mai avuto la sventura di leggere. A dispetto del bruttissimo titolo (che infatti fu deciso dall’editore) “Quattro soli a motore” è uno dei romanzi più belli mai scritti e pubblicati. C’è bisogno che vi ricordi quale dei due abbia vinto il premio strega, quale dei due abbia dominato le classifiche, quale dei due abbia consentito all’autore di scrivere articoli sui giornali e di vivere di scrittura, e quale dei due invece non sia arrivato a vendere mille copie, e ad avere uno straccio di recensione sulle grandi testate? C’è bisogno che vi ricordi come si chiama l’unico vergognoso paese al mondo in cui una cosa simile poteva succedere?

TROPPO
L’intellettualozzo italico odierno è un fanatico feticista del brutto, un seguace (spocchiosissimo) della noia programmatica elevata a filosofia scorreggiona, della mosciaggine insipida elevata a (im)potenza. 
Se il tuo libro ha un bellissimo incipit, lui ti dirà che è “TROPPO scolpito”. Se c’è un paragrafo di travolgente brillantezza e comicità, lui sentenzierà che è “TROPPO compiaciuto”. Se esprimi un concetto con forza e chiarezza, lui sdottorerà che il tutto è “TROPPO detto”. Se c’è la descrizione di un paesaggio, o di un’emozione, meravigliosamente poetica, la liquiderà come “TROPPO letteraria”. Se ci sono neologismi geniali, ti accuserà di “TROPPO virtuosismo”. E via TROPPando. 
Spesso gente così è responsabile delle pubblicazioni di grandi case editrici, purTROPPO. E i risultati si vedono fin TROPPO. 
In questo paese, se hai talento sei di TROPPO. 
E io mi sono TROPPO rotto il cazzo.






domenica 2 settembre 2018

dal mio romanzo inedito "IL VOLO INTERROTTO DEGLI ANGELI"

[Stavolta non si tratta di mia madre, né di quella del mio alter ego Corradino, ma della mamma di un altro bimbo, che a distanza di anni ci torna sopra col ricordo. Ma la riflessione che ne scaturisce è tutta vera, e tutta mia.]

VOSTRA SORELLA 
UN PAIO DI CAZZI

«Oggi, mattina presto di sabato, è capitato l’incredibile. Stavo litigando con la Madonna. Un po’ come mio padre che parlava con la stufa. No, non è questa la cosa incredibile. Lo sconforto può giocare brutti scherzi. L’avevo riesumata dal fondo di un cassetto, e ci stavo litigando. Le rinfacciavo tutte le mie rimostranze sull’inganno e la puzzonaggine delle istituzioni religiose. La cocente delusione della prima messa in ricordo della mamma a un anno esatto dalla morte. Avevo nove anni. Mi dissero vèstiti e andiamo che c’è la messa per la tua mamma. Potrò leggere una poesia per lei, dissi. No, ci pensa già il signor curato, disse mio padre. “Per la tua mamma”. E ci avevo creduto! Non pretendevo uno show in suo onore, con i canti e l’incenso, e la sua icona al posto della Vergine. Ma due paroline del prete apposta per lei. Dedicate proprio a lei. Davvero per lei. Un pensiero. Un ricordino. Una riflessione. Una cosetta durante la predica. Niente. Sapete come funziona, no? Venne nominata di striscio con burocratica freddezza al momento predeterminato. Quando nel rituale c’è una casella vuota e il sacerdote ci sbatte dentro il nome di chi è morto quel giorno un anno prima. Di chi è morto quel giorno tutti gli anni prima. Il 13 settembre mica era morta soltanto lei. Ricordati di nostra sorella Lucia. E di nostra sorella Giovanna. E di nostro fratello Mario… Una palata di nomi. Nella casella vuota. Che diavolo me ne poteva fregare, del loro “nostra sorella Lucia” nella casella vuota? Nel mio cuore sì, che c’era un vuoto. Spaventoso e indicibile. Dio, se c’era! Lucia era mia mamma, pensavo. Non era vostra sorella. Mia mamma adesso potrebbe essere mille cose. Un angelo, una goccia di pioggia, un bel sogno, l’amore che arde nel mio petto, la Donna di cuori nel mazzo di carte di un bambino, un bocciolo di rosa in oriente… Quello che solo so per certo è che cosa lei non è: lei non è nessuna cazzo di “nostra sorella Lucia” sbiascicata per quattro beghine dal nuovo pretonzolo che nemmeno la conosceva. Vostra sorella un paio di cazzi! Lo gridai, piangendo. In chiesa. Così forte che l’eco della mia indignata voce bambina sarà lì ancora adesso che rimbalza tra le navate, in cerca di un’uscita. Non mi arrivò nessuno schiaffo. Anzi, mi parve di indovinare sul viso di mio padre un mezzo sorriso. Forse il primo della sua vita.»


sabato 25 agosto 2018

Quindici anni senza Te



E a volte io ancora ti cerco, e a volte quasi quasi ti trovo, dentro un sogno confuso, dentro il battito ferito del mio cuore, nelle parole delle tue canzoni preferite. 
Come “Azzurro”. Come l’Angelo Azzurro che eri quando arrivavi in spiaggia con la tua biciclettina.

«E allora, io quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te»





mercoledì 22 agosto 2018

SCRIVANI, SCRIBACCHINI, SCRITTORI & AFFINI (POCO AFFINI)


EFFETTI CONTRARI

[La mattina del 14 gennaio avevo preso questo appunto, dimenticando poi di postarlo. Poco male: va così più o meno sempre…] 

Poi mi diranno che sono il solito brontolone, o declineranno ancora la menata dell'"invidia", ma in questi giorni sul Corriere Cultura mi sono beccato prima una paginata intera che aveva il solo scopo di comunicarci che un certo scrittore (mai sentito nominare) ha cambiato editore (e sticapperi?) e che nel 2020 uscirà un suo capolavoro che “indagherà la coppia” (non vedo l’ora! sono argomenti di cui si sente la mancanza!) e “sarà scritto in terza persona” (molto interessante), e poi, oggi, l’ennesimo lancio in grande stile (posso definirlo spudoratello, o magari esagero?) dell’ennesimo giallozzo sfornato da uno dei tanti giornalistucoli che in questi anni si sono scoperti Dostoevskij (o quantomeno Simenon). Incuriosito alla rovescia, cioè fondamentalmente irritato, dal tizio che nel 2020 indagherà la coppia in terza persona cambiando editore, faccio una breve e svogliata ricerca sul web, e trovo una perla assoluta: in un’intervista dice di scrivere solo calzando scarpe inglesi, perché con le scarpe da tennis si sente troppo comodo e non riesce a tenere a bada gli aggettivi. 
Bene, mi dico allora (sforzandomi di tenerli a bada anch’io): visto che riesco a scrivere benissimo anche in ciabatte o a piedi nudi; visto che trovo ispirazione passeggiando con vecchie scarpe da tennis che cambierò solo quando si saranno rotte (com’è giusto che sia); visto che le scarpe inglesi mi stanno sulle balle; visto che degli sdottoramenti sulla “coppia” m’importa ‘na sega; e visto che questo modo di elargire spazi sui giornali provoca in me un effetto di ripulsa, la mia Corte Interiore delibera che non leggerò mai e poi mai nulla di scritto da costui. 
Quanto al giornalista Dostoevskij-Simenon, più di una volta me lo sono trovato ospite di una trasmissione SPORTIVA. Appena tiravano fuori il suo libro spegnevo la tv e me ne andavo a dormire. 
Le chiamano “impennate di share”.


sabato 7 luglio 2018

RINGRAZIAMENTI


Non sono mai stato un amante di quelle pagine coi ringraziamenti in fondo ai libri. 
Quando si dilungano molto, poi, finisco col trovarle fra l'inutile, l'esibizionistico e il leccaculeggiante. (Per non parlare di quando gli autori ringraziano plotoni infiniti di cani&porci, che ti viene da chiederti se, con tutti quegli infiniti contributi esterni, il libro non sarebbe stato in grado di scriverlo un qualsiasi robot...) 
Finora, avevo ritenuto giusto e doveroso metterli solo al termine di "Quattro soli a motore", mentre nei romanzi per i quali non sentivo tale sincera urgenza ho preferito lasciar perdere, e addirittura in occasione del libro "Il bambino che sbagliava le parolacce" ho optato per l'ironia scherzosa di un lapidario e - lo ammetto - un po' sbruffonesco «Grazie/Prego». Ma i Ringraziamenti che ho deciso di esprimere per iscritto alla fine di "Agonia di una Fata e altri sfaceli" sono per me talmente significativi da decidere di riprodurli anche qui. Eccoli:


Ringrazio Paolo Zardi per avermi più volte esortato a riprendere in mano questo materiale così incandescente e doloroso.

Ringrazio Luisa Traina e Giacinta Moliterni per l’amorevole pazienza con cui lessero precedenti versioni, comunicandomi preziosi dubbi e costruttive perplessità.

Ringrazio Francesco Spinoglio per avermi indicato la nuova strada, bellicosa necessaria e ribelle, dell’autoproduzione.

Ringrazio Alice Pezzoli per il progetto grafico del gabbiano blu.

Ringrazio ogni singola Lettrice e ogni singolo Lettore di questo Romanzo.



venerdì 22 giugno 2018

Frammento n°238 (e ultimo)

Gli ultimi tempi avevo bisogno di “uscire a fumare”, come un militare in pausa spaccio. Ti sono stato tanto vicino, ma alla fine era più forte di me – esausto, esaurito, disperato – allontanarmi un po’. E mi è difficile perdonarmi per questo. Se era umano, allora la mia umanità mi fa schifo.

Per te è stato meglio così. 
Eppure come sono pentito di aver invocato Falla guarire o falla morire
Perdonami perdonami perdonami perdono.

Ma a mandarmi il magone alle stelle è la premonizione della domanda che mi salirà alla gola, lo so, giovedì mattina. 
Che cosa mi metto, Mamma? 

venerdì 25 maggio 2018

Paolo Zardi - TUTTO MALE FINCHÉ DURA

Feltrinelli, 174 pagine, € 15
voto: 9

I grandi scrittori ti spiazzano. I grandi scrittori (rare bestie in via d’estinzione) non riscrivono ogni volta lo stesso libro, variando solo i nomi dei personaggi e delle vie di una Tedio Town che rimane sempre quella, o il temino scolastico di base (“Ma che bravino, ha parlato dell'anoressia!”, “Ma che bravino, ha parlato del probbblema della dddroga!”). Un grande scrittore come Paolo Zardi può passare agevolmente (poiché scrivere gli è naturale) da pagine che parevano create da un Cechov postmoderno a questo frizzante, divertente, scoppiettante e un po’ strampalato romanzo, che pare fluito dalla tastiera magica di un Martin Amis particolarmente in vena. (Gustatevi, tanto per dirne una, questa spietata ed esattissima definizione della web-irrilevanza videopornoerotica del made in Italy: «Gli italiani, invece, non si erano mai liberati dall’inclinazione bucolica e un po’ pecoreccia che si portavano dentro da secoli: romagnoli con braccialetti d’oro che non smettevano mai di parlare, pugliesi pelosi, mogli grasse e culone con il viso nascosto. A livello mondiale non se li cagava nessuno.»)

Non so dirvi se questa sia in assoluto l’opera migliore di Paolo Zardi, perché sono stato a suo tempo troppo impressionato sia dalle meravigliose raccolte di racconti Antropometria e Il giorno che diventammo umani (entrambe edite dalla Neo, cui andrà per sempre il merito di aver scommesso con intelligente lungimiranza su questo autore) sia dal fulgido nitore della storia brevissima Il signor Bovary (Intermezzi). Ma è di sicuro, a mio parere, il suo miglior romanzo. E stiamo parlando di uno scrittore che con altri bei romanzi ha saputo deliziarci e stupirci, e con uno in particolare (XXI secolo) approdare alla dozzina dello Strega, per quanto debba confessare che la premiopoli italiota rimane per me un radar infallibile per individuare nella nebbia i libri da NON leggere (e infatti il suo, che era il più bello, non arrivò a piazzarsi nella cinquina finale).
E in un periodo oscuro che vede trionfare i preservativi di bronzo con cui le suorine del politically coglion sterilizzano l’Arte della Narrativa, lasciatemi dire che un’altra buona notizia è che in questo libro troverete parecchie bellissime parolacce (ma solo dove e quando ci vogliono: né l’autore né i personaggi soffrono di sindrome di Tourette).

C’è chi ritiene che l’intonazione zardiana sia qui divenuta troppo caricaturale (come se fosse un difetto, poi). A me non sembra. Certo, al contrario di tante odierne lagne documentaristiche e militanti (e scritte con le natiche) questo romanzo è divertentissimo (basti pensare alle improbabili storielle che il balordo protagonista inventa per riconquistare le figliole che aveva abbandonato: «un giorno aveva mangiato una sacher decorata con delle note musicali di glassa e dopo averla digerita era riuscito a suonare quel motivetto scorreggiando») ma al tempo stesso gronda verità e umanità, e vera umana sofferenza, quasi da ogni riga.
Molto bello anche il titolo, di un pessimismo a metà strada fra il minaccioso e il disincantato che mi ha riportato al primo Woody Allen, a quello spezzone in cui sostiene che la vita si divide in Orribile e Miserrimo, e se tu rientri “solo” nella categoria Miserrimo devi ringraziare la fortuna.

Un libro che si divora in poche ore di felice libidine febbrile. C’è ancora chi si ostina a sostenere che questo non sia un pregio, e invece oggi, credetemi, LO È! Perché la più urgente lezione calviniana si chiama Leggerezza, e la complessità DEVE essere gestita e mitigata dal Talento. Tutto il resto è greve e pretenzioso pastrocchiume, tutto il resto sono uomini e donne senza Qualità, secchioncelli che invece di parlarvi scatarrano catarro più o meno saccente, e ve lo fanno pure pagare. Questi invece sono i soldi meglio spesi, perché capaci di comprare l’unico tipo di Piacere in grado di essere anche edificante, consolatorio, rinfrancante: la buona lettura, la bella Arte.

Insomma, se in genere i noiosi nani sbadigliati fuori dalla moribonda e suicida narrativa italica odierna mi fanno passare del tutto ogni voglia di leggere (e di scrivere in questa fantastica Lingua) un gigante come Zardi, con tutti i suoi difetti (perché la vetta della creatività umana si chiama ancora Imperfezione, e la perfezione assoluta l’avremo quando anche in questo campo la truffa chiamata “intelligenza artificiale” verrà a seppellirci sotto coltri di merda asfittica) un gigante come Zardi, dicevo, ti fa rimpiangere di non avere davanti mille anni di vita, e centomila libri come questo da leggere.
Non fatemi incazzare, porco d’un cazzo.
Parola di Scriba.

domenica 4 febbraio 2018

Nicola Pezzoli - AGONIA DI UNA FATA E ALTRI SFACELI


Corradino è adulto. E sua madre sta morendo.

Io sono come una rana in uno stagno asciutto.
(Maitri-upanisad, I, 4)

La forma di questa Persona è come una veste color zafferano, 
come lana bianca, come una lucciola, come un fiore di loto, 
come il balenio di un lampo improvviso…
(Brhadaranyaka-upanisad, II, 3,6)


Un figlio trentaseienne, “scrittore fallito e sceneggiatore mancato”, accudisce la madre malata nei suoi ultimi quattro mesi di vita. Una storia d’amore e dedizione, tratta da uno struggente diario scritto con lacrime e sangue nell’estate del 2003, la più calda e maledetta di sempre. Un romanzo che non è soltanto intimo e poetico, ma diviene anche un lucido, impietoso catalogo delle macerie di un mondo al collasso – intellettivo, climatico e morale. Più di quattrocento pagine che riescono a emozionare, indignare, commuovere, ma che rifuggono dai lamentosi cliché del pietismo ricattatorio e della pornografia del dolore: ci si ritroverà anzi, più volte, a ridere di gusto, con quel senso di spiazzante stupore dato dall’impossibilità di scorgere netti confini fra le partiture comiche e quelle tragiche. Come sempre succede allorquando ci si ritrova al cospetto di un vero scrittore. 

Incipit

Poserò qui, come sopra un altare, le inadeguate parole del mio amore per te. Poiché ultime a svanire saranno sempre loro: quelle dolci come “mamma”, quelle orrende come “cancro”, quelle sbagliate come “oxiliplatino”.
Oxiliplatino era una bella parola intesa male: fantomatica nuova chemio sperimentata in Francia cui sentii accennare una sola volta – per te era comunque troppo tardi – e che mi riempì di emozione, perché il suono “oxili” richiamava “ossigeno” e “ausilio”. Mentre “oxali” (scoprii per caso, molto più avanti, che il termine giusto era “oxaliplatino”) mandava un tanfo d’ossa marce e di tomba.
Una parola che non esiste per curare un male che non si può curare: non riesco a immaginare disperazione più grande.


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martedì 30 gennaio 2018

“Fai bene a guardare quel campo. Perché tu non ci metterai mai piede”

Fototessera adolescenziale, alcuni mesi fa


ANTROPODINAMICA SOCIALE


Mafia, bullismo, mobbing: a 16 anni provai sulla mia pelle queste belle cosine, tutte in una volta. Arrivai in una nuova squadra di calcio. Era il mio anno migliore, e nelle partitelle segnavo gol a grappoli: di sinistro, di destro, di testa, di tacco al volo alla Paulo Roberto Falcao, con tiri da lontano o entrando in porta col pallone dopo averne dribblati tre o quattro. 
L’allenatore passò da una prima fase in cui mi illudeva per pungolare il centravanti titolare scarso (“Dovrò far giocare quello nuovo: chèl lì el fa gol!”) a una seconda fase in cui prese a maltrattarmi sistematicamente, al limite del sadismo e della persecuzione, per spingermi ad andarmene. Ma io stupidamente non mi arrendevo, e continuavo a farmela in treno, più tre chilometri a piedi tutto solo al buio, per tre sere la settimana. 

Alla fine arrivò a emarginarmi facendomi svolgere tutto un allenamento in disparte, lontano, come succede soltanto nelle squadre professionistiche ai ribelli messi fuori rosa. Al rientro negli spogliatoi sbottai in un pianto irrefrenabile. Fu l’ultima volta che mi videro. 
Qualche settimana prima, il centravanti titolare scarso mi aveva raggiunto presso la rete che separava il campetto d’allenamento dal campo grande, e in un orecchio, con sfottente arroganza, mi aveva sibilato: “Fai bene a guardare quel campo. Perché tu non ci metterai mai piede”.

Ogni sera il centravanti titolare scarso arrivava e ripartiva in macchina con l’allenatore. Non sono ancora riuscito a perdonarli. Eppure dovrei essere grato, a quelle due belle personcine. Perché mi hanno aperto gli occhi sui tre pilastri su cui si basa l’antropodinamica sociale: mafia, bullismo, mobbing.

(Buon compleanno, Nick!)


giovedì 25 gennaio 2018

NEL LABORATORIO DELLO SCRITTORE - Assaggi da un romanzo prossimo venturo

[Estate del 1980: il tredicenne Corradino sta trascorrendo una vacanza nella Svizzera Tedesca, ospite di alcuni lontani parenti]


Dalla seconda parte del capitolo 6 ("Chiavi in meno"), l'episodio degli stronzi di pietra.


"Il culmine della mia giornata fu quando una specie di vecchia coi capelli biondi tinti irruppe nel bagno mentre tentavo di cagare. Perché l’unico difetto del cugino Bernardo e di Martina Weckerli era lo sfizio intellettuale – un misto di Woodstock e sessantottismo bohémien – di lasciar volutamente sprovvista di chiave la porta di quel così delicato localino, e questo era l’unico lato di loro che non solo non approvavo, ma proprio, con tutto me stesso, detestavo. La barbagianna intrusa si mise subito a pigolare «Ooh, scussi, scussi», con vocina stridula e imbarazzata, poi richiuse la porta e se ne andò. 
Ma intanto mi aveva inibito i complicati equilibri psicointestinali dell’evacuazione.

Questi svizzeri erano proprio incomparabilmente più civili, checché ne dicano i brubrù italici amanti dei rifiuti nei boschi, degli sputi per terra, delle cacche di cane sui marciapiedi e dei pacchetti vuoti di marlboro gettati dalle auto in corsa. Solo che a volte certi aspetti di civiltà possono rivelarsi controproducenti. Per esempio questi svizzeri di cui ero ospite non usavano chiavi. Proprio da nessuna parte. L’unica chiave da loro conosciuta era quella per avviare la duecavalli color panna. Se le macchine fossero partite in altro modo, quello di “chiave” sarebbe stato presso di loro un concetto sconosciuto, o quantomeno superato. Tenevano sempre tutto aperto. La porta d’ingresso, il portone da basso, perfino l’atelier che era zeppo di opere d’arte e materiali costosi. E se l’essere senza chiave della porta d’ingresso di casa può darti la piacevole impressione di stare davvero in un posto tranquillo, in un luogo di fiaba dove niente di male ti potrà mai accadere, dove i ladri o non esistono o si sono beccati l’ergastolo preventivo dopo la prima merendina rubata all’asilo, e dove gli attentatori bombaroli vengono individuati e strozzati in culla da Alexander Schwartz, lo stesso non si può dire dell’assenza della maledetta chiave nella maledetta toppa interna di quella cazzo di porta del cesso.

Non che la vecchia pigolante mi avesse visto nudo: quando stai assiso su quel trono coi pantaloni arrotolati non si vede mica niente, ma da quel momento in poi rimasi terrorizzato dal possibile prodursi di altre irruzioni consimili e violazioni mangiacrauti della mia intimità, e a un certo punto maturai la decisione che per qualche giorno avrei potuto benissimo tenerla.
Ma quando fai così per troppi giorni, poi finisce che gli stronzi (nel senso di “pezzi di sterco”, come il vocabolario di casa mia definiva l’unica parolaccia che vi si potesse reperire all’epoca) diventano vendicativi e fanno le rappresaglie. Le rappresaglie degli stronzi consistono nel fatto che diventano di pietra. Dicono, questi stronzi: “Non mi hai lasciato uscire quando volevo? E allora io adesso divento di pietra e non esco mai più, fino a quando non crepi intossicato!”

E allora, a metà della settimana successiva, ci fu una mattina in cui il cugino Bernardo ci portò al piccolo rigoglioso parco che stava in cima alla via, la lunghissima Non So Più Che Cazzen Strasse che ci ospitava. Luogo incantevole e mattina incantevole, non fosse stato che io avevo gli stronzi di pietra vendicativi nel colon che mi davano il mal di pancia e le allucinazioni mistiche, tipo dromedari che si arrampicavano in cima agli alberi al posto degli scoiattoli, cigni fosforescenti appollaiati sui rami invece che nel loro laghetto, e nel laghetto elefanti marini che felici emanavano fagotti di feci enormi e scivolosi come tonni vivi.
Tenerla non si poteva più: nella pancia avevo ormai una pietraia. Non che tecnicamente mi scappasse: era quello il dramma, gli stronzi di pietra mica scappano, non sono vigliacchi, sono pigri, stanno benissimo comodi nella pietraia, loro. Solo che il mal di pietraia ti fa capire che o trovi il modo di dar luogo allo sgombero, di farli smammare, oppure schiatti, scoppi, muori. Ero lì lì per chiedere a qualcuno di aprirmi il ventre con un coltellaccio, dal male che mi faceva: una provvidenziale cagata cesarea.
Vicino a un liriodendro gigante c’era un piccolo svizzerissimo cesso (bello, pulito, profumato, con la chiave per chiudersi dentro) e io mi ci rifugiai in cerca di salvezza, mentre il cugino Bernardo, Dora e Damien nel suo carrozzino vagolavano per il parco che già conoscevano come le loro tasche e avrebbero voluto far conoscere a me, e si armavano di umana pazienza per far passare, senza troppo farmeli pesare, i cinque, dieci, quindici, venticinque minuti necessari al mio arduo, possente, doloroso sforzo di travaglio escrementizio.

Ora, dovrò dire che la parlata svizzero-tedesca è di solito qualcosa di ritmico-incalzante-ferroviario (a maggior ragione in una città come Zug che vuol dire anche "treno"), ma molto pacifico e quasi muliebre, del tipo “Telerùnfete-stròmfete-rànkete, likka-lokka, kùuuet”… (il parlante-tipo che bisogna immaginare è un Sigfrido alpestre vagamente effeminato, con le gote paonazze e la barba marroncina, e un piccone che usa solo per scalare le rocce, previa autorizzazione scritta). 
Ma se tu stai chiuso barricato tre quarti d’ora al cesso pubblico monotazza del parco per via che hai gli stronzi di pietra, e fuori qualcuno ha bisogno, quello non si metterà a dire “Kùuuuet” in modo pacifico e muliebre: si metterà invece a inveire-smadonnare in modo piuttosto teutonico e viepiù minaccioso, non più da rossocrociato terùn dei tùder, ma proprio da tedesco di quegli altri là di sopra, e a comportarsi come un rastrellamento. 
Vien da pensare che se gli dicessi qualcosa in Italiano, o peggio ancora un timido “Eine moment!” con inconfondibile e facilmente smascherabile accento italienish, dentro quel cesso potrebbero piovere granate. Allora taci, e raddoppi gli sforzi, e preghi quegli stronzi degli stronzi di pietra di smetterla di fare gli stronzi, e di venire fuori, se ne hanno il coraggio.

Nel momento clou, in cui ormai mi giocavo la vita, mi aggrappai con le mani ai polpacci, stringendoli forte, mentre sentivo la testa implodere: stavo spingendo anche con le meningi. Lo sforzo sia con te, Corradino!

Alla fine, dunque, ci riesci. 
E quando alla fine esci da quel cesso, sotto gli occhi truci della gestapo pisciona teutonica che non t’incenerisce solo perché ha dimenticato a casa il lanciafiamme (e perché per fortuna si tratta a occhio e croce di un ottantacinquenne), hai le membra sfinite, il viso tirato e l’anima felice della donna che abbia appena partorito.
Sì, quegli stronzi di pietra svizzeri erano stati i miei primi figli."