"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

venerdì 6 dicembre 2019

L'IMPOZZIBILE DOTTOR PEZZ (o come diavolo s'intitolerà)

ZIO SCRIBA FOREVER

In questo paese zeppo di intellettualoidi tristanzuoli, saccenti e senza ironia, per uno scrittore possedere ANCHE un minimo di talento comico è considerato un orpello goliardico, una macchia pacchiana che guasta il curriculum, qualcosa di imbarazzante da tenere nascosto e di cui vergognarsi. Be’, io del mio alter ego Zio Scriba sono sempre andato fiero, così come sono fiero di esser nato umorista (le mie primissime pubblicazioni furono 4 battutozze con Gino & Michele), fiero di aver risollevato il morale di tanti colleghi studenti, di averli aiutati a vincere la spossante noia liceale col mio memorabile Inkazzo Kuotidiano, divenuto poi Periodiko e infine Sporadiko, giornalini rigorosamente NON autorizzati, roba che se mi beccavano finivo espulso da tutte le sqkhuole del mondo.
Ecco perché sono felice di annunciarvi che fra le mie proposte 2020 (non certo l’unica, è ovvio, qui non si batte la fiacca, qui si crea) ci sarà una raccolta di "racconti da ridarella" tutti nuovi, da far impallidire persino il pirotecnico Pazzoteca La Paz.
Perché di bei romanzi “seri” ne ho scritti e ne scriverò, ma niente mi rende più felice delle matte risate dei miei lettori, e di quando, esilarati, mi vengono a dire (cito da commenti reali e numerosi piovuti durante gli anni sul mio blog): “Arrivato a quel punto sono caduto dalla sedia”, “Mi sono ribaltato”, “Piangevo dal ridere”, “Avevo le convulsioni”, “Ti odio, perché mi hai fatto colare il rimmel appena messo con tanta cura…” Insomma, anche lo Zio Scriba e la sua pazzerella natura scemidemenziale reclamano a gran voce il loro spazio. (E credo lo reclamino anche quelli fra voi a cui piace divertirsi, e che da tempo non riescono più a trovare un nuovo libro davvero divertente nemmeno a pagarlo un milione). 
Il titolo del nuovo libro potrebbe essere
L'impozzibile Dottor Pezz, 
e quello che segue sarà uno dei ventisei racconti. Ve lo regalo in abbondante anteprima. Perché io posso. Perché voi lo meritate. 
Buon dicembre, buon inverno, buona vita e buone feste.


ZIO PÈ


Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare del leggendario boss denominato Zio Pè.
Ve le stacco, quelle mani.

Lo Zio Pè era un mafioso della mutua, d’accordo. Scalcinato, diciamo. Ma nel suo piccolo era tutt’altro che un fetente di mezza tacca. Era un gran bel fetentone. A ottant’anni suonati controllava ancora un’edicola che vendeva anche i pornazzi, e una fiaschetteria che spacciava fischietti per fiaschetti. Aveva poi ai suoi ordini un ladro d’appartamenti claudicante, il bisnonno ricettatore del ladro, e uno spacciatore messo male di settantanove anni, più svariate altre figure più sfigate. Ma il suo vero asso nella minchia, l’uomo con cui terrorizzava tanta gente (o almeno ci provava), era il fedelissimo Totonnuzzo O’ Scagnozzo Malandrino (una carogna, che però aveva visto giorni migliori). 
Chiunque trovasse da dire o da ridire, lo Zio Pè gli sguinzagliava addosso Totonnuzzo O’ Scagnozzo Malandrino.
Totonnuzzo O’ Scagnozzo Malandrino veniva regolarmente malmenato da questi chiunque.
Ma pazienza.

A monopoli lo Zio Pè sarebbe stato uno che teneva due case d’appuntamenti fra Vicolo Corto e Vicolo Stretto. 
Che è sempre meglio di essere lo stronzo che è appena stato eliminato, magari col famoso scherzo dell’inculata di cemento.

Il pizzo allo Zio Pè, un pizzo molto esoso, quasi insostenibile, lo pagava soltanto una vecchia lavanderia a gettone. La lavanderia a gettone era di proprietà dello Zio Pè, ma lui se n’era dimenticato, e nessuno glielo ricordava per non farlo restar male.

Secondo i suoi biografi ufficiali, Alfiero Incatasciato e Autotreno Corcullionita-Scarassa, da bambino lo Zio Pè era giovanissimo. Da studente fu somaro per scelta filosofica, e moderatamente di destra: a furia di prendere a calci comunisti si fece venire le vescicole, il piedepuzzo e la fascistite plantare.

Per tutta la vita cercò di togliersi lo sfizio di avere una squadra di calcio tutta sua da far fallire, ma riuscì a comprare solo la Montecapperese (terza categoria). Approdò così anche a Mai Dire Montecappero (famosa trasmissione di Telemontecappero Di Sotto International) con memorabili frasi come “Noi mezze ali non ne compriamo, o giocatori interi o niente”.
Quando capì (perché ci metteva un po’, ma poi le cose le capiva) che questi della televisione lo prendevano per il culo gli mandò Totonnuzzo in missione punitiva notturna. Quelli della televisione lo malmenarono.

A volte lo Zio Pè non si lavava.

Da tempo i conti a fine mese non tornavano. Neppure a truccarli bene bene.
Forse per via di quel malinteso con la lavanderia a gettone.
O forse perché il ragioniere rubava le creste. (C’è sempre un ragioniere che si crede più furbo).
Il ragioniere nella fottispecie era suo cugino, e persino di nome faceva Onestino e di secondo nome Fedele e di cognome Diomiguarda, ma lo Zio Pè per sicurezza gli fece lo stesso il famoso scherzo dell’inculata di cemento.

I conti continuavano a non tornare neppure dopo. 
Lo Zio Pè se ne ebbe a male. 
Macerato e impuzzonito nel rimorso, fece dire due messe di suffragio per l’innocente Onestino Fedele. Non ci andò nessuno. Manco il prete. Lo Zio Pè stava per mandargli in missione Totonnuzzo, ma poi ebbe pietà. Di Totonnuzzo. Il prete era uno che menava persino nel confessionale. Invece delle penitenze cazzotti, ogni tanto una bastonatina, ma piano.

Lo Zio Pè amava essere temuto. Se incontrava sulle scale il vicino di pianerottolo (un povero cristo democristiano di centouno anni) lo prendeva a calci.
Però allo Zio Pè piaceva anche mettersi in mostra e farsi bello con atti di grande generosità per dimostrare che la vera mafia è amica della gente. Come la volta che per la piazza passò di passaggio un pulmino di sfruttatori agricoli con a bordo trenta bambini africani appena sbarcati, e allora siccome era quasi ferraluglio e faceva molto caldo lo Zio Pè gli regalò mezzo pandorino scaduto da dividersi fra loro.
Prima però i trenta bambini dovettero mettersi in fila, incatenati com’erano, e baciargli la mano.
Uno particolarmente ignorante e infingardo gliela morsicò.
Sul pulmino degli sfruttatori agricoli ne risalirono vivi una ventinovina.

Per non sentirsi moralmente inferiore ai grossi calibri, una volta lo Zio Pè aveva sciolto un coniglio nell’acido.
Ma poi si era sentito maledettamente in colpa, al punto da diventare vegetariano per un paio d’ore.
Non si fa, coi conigli non si fa.

A monopoli lo Zio Pè sarebbe stato uno che pescava male dai mazzetti degli imprevisti e delle probabilità.
Alla fine venne messo in mezzo dal pentito Luddo Lippo Vandenbergh detto Lu Viscido, in realtà un mafioso acquisito (ius turisti belgi) che non l’aveva mai raccontata giusta ma quella volta sì. Fece i nomi di alcuni pezzi davvero grossi e, per sbaglio o per stronzaggine, di Zio Pè. 
In galera ci finì soltanto lo Zio Pè.
Tutti gli altri erano difesi dal pericoloso avvocato Scolopendra. Lo Zio Pè provò a domandare al pericoloso avvocato Scolopendra se difendeva pure lui. Allora il pericoloso avvocato Scolopendra sputò per terra davanti a lui, fece raccogliere lo sputo da un suo assistente, lo fece impacchettare e lo consegnò allo Zio Pè. 
Probabilmente un messaggio in codice.

Il processo durò dei mesi e venne anche la televisione (quella vera).
Quelli della televisione vera erano degli sciacalli che sciacallavano sul processo per infilarci dentro la pubblicità, ma inutile aversene a male, il mondo va così.
Alla fine la sentenza fu durissima, povero Zio Pè.
In prigione direttamente e senza passare dal Via.
Il giudice gli fece anche un predicozzo moralistico-moraleggiante di quattro ore e tre quarti. Mentre si sorbiva il predicozzo, lo Zio Pè pensò (poiché pensava) che prima o poi, con comodo, gli avrebbe mandato Totonnuzzo a fargli una sorpresina sotto casa.

Quando gli dissero che lo mandavano all’Asinara gli parve un’offesa da lavare col mocho. Ma poi gli spiegarono che l’Asinara non era una stalla di ciucci, ma un carcere di massima sicurezza per tenerci dentro i delinquenti più schifosi, e ne fu bello bello orgoglioso.


lunedì 25 novembre 2019

FACOFFO INTERCULENS?


Ognuno ha il suo fiore. Questo non so nemmeno come si chiami, ma rappresenta uno dei miei Daimon, uno dei miei bellicosi e irriverenti spiriti guida: il fiore del dito medio inalberato.

sabato 2 novembre 2019

PERCHÉ AUTOPRODURSI? J. Stronkabook intervista l'outsider Nicola Pezzoli in 14 infuocate domande, nel giorno dei morti e degli scrittori italiani

J. Stronkabook
Nicola Pezzoli


Perché l’autoproduzione?
Nasce come puro esperimento: pubblicare qualcosa di alto livello ma al tempo stesso troppo atipico per certa miope e imbalsamata editoria. Come Pazzoteca La Paz, il migliore di tutti i miei libri insieme a Gigoló per cliente unica (a sua volta autoprodotto) e Quattro soli a motore. L’esperimento mi è piaciuto, e ho proseguito.

Non si rischia di passare per mitomani?
Certo, se ti pubblichi da solo rischi di confonderti con milioni di sgangherati semianalfabeti. Così come se pubblichi con la maggior parte degli editori italiani rischi di confonderti con centinaia di scribacchini più o meno mediocri, raccomandati, insignificanti, politicizzati, senza idee originali, o con barbosissimi laureatelli cagna cum laude che confondono il saputellismo retorico con l’Arte. Autopubblicarsi non è uno scherzetto da prendere alla leggera: si mette in gioco la propria reputazione, anche nei confronti di se stessi.  

Com’è nata l’idea?
Mi ci baloccavo da parecchio. Prima di conoscere l’opportunità offerta da Amazon pensavo di produrre dei semplici pdf da vendere direttamente attraverso il blog. Li avrei chiamati nikkEbukke. Ma rimandavo di continuo, perché per me non avere il cartaceo è come non aver pubblicato niente.

Vuole anche essere un guanto di sfida, il tuo, uno sberleffo a un certo mondo editoriale, soprattutto quello della grande editoria?
Inizialmente no, ma un po' lo è diventato. 
Nauseato dal vedermi passare davanti troppe mezze calzette, ho deciso di ritirarmi sdegnosamente sul mio Aventino, ma non volevo che fosse un ritiro definitivo, uno sparire: un Aventino dalla cui cima guerreggiare, foss’anche a pernacchie e colpi di fionda (perché è ovvio che quelli, di me, nemmeno se ne accorgono). Anche per questo ho scelto Amazon, facendo arrabbiare alcuni savonarola dal moralismo facile (e intermittente): avere un (non) editore di Seattle è per me la massima forma di orgogliosa ribellione, un autoesilio con dito medio inalberato.
(Il paradosso è che io passo per dinosauro tecnofobo perché odio gli smerdofoni, ma quando poi la tecnologia diventa davvero rivoluzionaria e formidabile come in questi casi mi si dice che non dovrei usarla! Ma io vado oltre, e ti dico che se ci fossero state simili possibilità ai tempi di Proust, di Joyce o di Dostoevskij, quei giganti si sarebbero autoprodotti, e l’editoria come la intendiamo oggi neppure esisterebbe).

Cosa resterà di questi tuoi titoli, a parte la vita che vivranno sugli scaffali di pochissimi tuoi aficionados?
Essere uno Scrittore significa sbattersene di tutto ciò che è “fama e gloria”. E poi è tutto così relativo, e così vano: la gente sta smettendo di leggere (o legge merda pompata in tv), e il romanzo che approda in libreria ha una vita media di due settimane. L’industria più fiorente collegata ai libri è il macero. Verranno dimenticati (lo sono già stati) anche i miei bei romanzi pubblicati da editori. Così come verranno dimenticati i brutti romanzi da classifica italiota. Ma pensa che libidine se un giorno, fra cent’anni, spuntasse un critico così indipendente, appassionato, onesto e intelligente da rivelare al mondo che alcuni dei migliori libri italiani erano stati autoprodotti da un cane sciolto, da un outsider fiero e talentuoso, da un pazzo assoluto…

Quindi non torneresti all’editoria neppure se ti chiamasse?
Adesso come adesso no. Anche perché la grande editoria è cieca e sorda, mentre la piccola ti dà percentuali risibili e pretende da te un lavoro sul campo troppo dispendioso in fatto di stress, di energie, di tempo e di denaro, come se gli scrittori fossero tutti milionari che scrivono per vincere la noia, o dopolavoristi con l’unico hobby di mettersi in mostra cazzeggiando per saloni e salotti, o facendo più presentazioni di Philip Roth. Chissà perché, nessuno dice mai che fare l’editore debba essere un hobby, che fare il tipografo debba essere un hobby, che fare il distributore debba essere un hobby, che fare il libraio debba essere un hobby, che fare il critico o il giornalista culturale debba essere un hobby, che fare l'agente letterario debba essere un hobby. E invece gli scrittori, cioè coloro che col loro ingegno e la loro creatività danno da vivere a tutta ‘sta gente qui (che spesso lavora da cani), dovrebbero farlo per la gloria. Ma guarda un po’! Il “babau” Amazon è una soluzione meravigliosa anche perché ti paga il giusto e non ti chiede niente. Attualmente sto scrivendo il mio miglior romanzo di sempre, e ho già deciso che agli editori non lo proporrò nemmeno.

La qualità non ne risente?
Onestamente, se riguardo il mio percorso, mi accorgo che i soli problemi con l’autoproduzione li ho avuti, i primi tempi, a livello tecnico, per le impaginazioni e cose simili. Tornando al discorso “mitomania”, devo dire che MAI avrei scelto l’autoproduzione (così come non scelsi l’editoria a pagamento) prima di aver dimostrato anzitutto a me stesso che potevo essere pubblicato, letto, apprezzato, recensito non solo da blogger ma anche dal grande Edoardo Camurri o da Alessandro Beretta del Corriere della Sera, intervistato da Radio Radicale, invitato a Festival della letteratura e non solo (penso al meraviglioso Festival di Bra, “Chiamata alle Arti”, organizzato da gente giovanissima che volle avere lì anche me.) Ma Bukowski dice che a cinquant’anni si raggiunge la chiarezza nello scrivere. Ed è veramente così. Una volta imparato ad alleggerire e asciugare i miei testi, non avevo più bisogno di nessun editor per puntellarli (o in certi casi appiattirli…). Ma prima, prima no! Per una questione di dignità ho aspettato di esordire a 41 anni, e nel frattempo mi sono guardato bene dal pubblicare a pagamento per poi impietosire porta a porta amici e conoscenti, mi sono guardato bene dal tampinare scrittori o leccare ani redazionali. Rilegavo i miei testi in formato A4, come copioni cinematografici, e li davo da leggere gratis solo a chi si mostrava davvero interessato. Al mio primo editore spedii il dattiloscritto senza nemmeno metterci “All’attenzione di…”: non sapevo i nomi di chi ci lavorava! Se penso a tutte quelle mezze seghe ambiziosette che passano il tempo in un continuo brigare e intrallazzare, vorticoso e frenetico... (ma quando cazzo scrivono?) Mi fanno pensare al grooming, lo spulciarsi collettivo che favorisce la socialità delle scimmie. Ma evidentemente hanno ragione loro. Tornando al discorso relatività: in quella lunga prima fase, quando colpivo al cuore una lettrice particolarmente raffinata e intelligente amavo ripetermi che fra zero lettori e UN lettore passa più differenza che fra uno e diecimila, ed ero felice così!

Quindi addirittura consiglieresti l’autoproduzione ad altri colleghi? Vuoi l’estinzione degli editor?
Ci sono editor bravissimi che devono continuare a svolgere il proprio lavoro (e magari solo quello, invece di giocare agli scrittori…). Anche perché, chiarezza o non chiarezza, non tutti gli autori sono in grado di fare da soli. Quanti siamo, ad esempio, ad avere il disinvolto coraggio di pubblicare sui blog o sui social degli abbondanti assaggi dei nostri lavori in corso d’opera? Ci sono scrittori che ne avrebbero il terrore, che si vergognerebbero di far vedere quanto sono zoppicanti e malscritti i loro libri in fase embrionale, di quanta differenza c’è fra il prima e il dopo editing. Senza editor dovrebbero per forza cambiare mestiere (e allora forse sì, in questo senso sarebbe meglio per tutti se gli editor si estinguessero… magari insieme ai ghostwriter, così finirebbe la farsa semitruffaldina dei finti scrittori).
E un’altra cosa: la sempre più massiccia offerta di libri omologati e bruttini, il tradire il talento dei veri scrittori e l’aumentare a dismisura del potere degli editor sono catastrofi che avvengono di pari passo. Frega niente se scrivi col culo, devi solo essere furbo a individuare il temino “importante”, la storia ruffiana, la trama con potenzialità commerciali. Poi ci pensa il potente maghetto a farlo diventare un libro (quasi) decente. Ma devi scrivere (anche male, malissimo) quello che vogliono loro, che loro (e i loro amici del comparto critica) siano in grado di capire dentro i loro limitati orizzonti accademici e ideologizzati, e che abbiano interesse a veicolare. Ha ragione Ginevra Bompiani: oggi i libri muoiono di editing. Anzi io direi che abortiscono proprio.

Un libraio molto attivo sui social ha detto senza mezzi termini (senza fare nomi, ma poteva essere rivolto a te): “Smetti di autoprodurti! Se ti autoproduci per noi sei morto. Morto!”
Lo so. È un ragazzo molto colto e intelligente, un amico, che scrive benissimo e che di solito non dice sciocchezze. Ma un’eccezione può sempre capitare. Però lo capisco: fa il libraio e deve tirare l’acqua al suo mulino, anche se per tirare avanti è costretto a vendere acqua talmente torbida che io personalmente piuttosto che berla preferirei morire di sete. (Qualcuno ha detto che in libreria bisognerebbe andarci coi crisantemi, come al cimitero, io invece dico che dovrebbero fornire loro i sacchettini per il vomito, come sugli aerei). E ha ragionissima quando si lamenta dei tromboni mitomani di cui sopra che pretendono di piazzare i loro libroidi nella vetrina della sua libreria. Ma in un mondo di zombi, essere “morto” non è poi così brutto. In un ambiente in rottura prolungata e definitiva, che continua a pubblicare, premiare, vendere e acclamare pseudocapolavori insipidi, tutti uguali o scritti col culo, io sono fiero di continuare a produrre Buona Narrativa per pochi privilegiati, di essere un outsider che non c'entra un cazzo, passato a miglior vita e a miglior scrittura. Se poi la gente preferisce la fuffa che passa il convento, padronissima, così come è padronissima di guardare i cinepurgoni invece del Grande Lebowski. Contenti loro…

Mi ha colpito a un certo punto la parola “politicizzati”. Vuoi approfondire?
Mi sono sempre considerato di sinistra (anche se non potrò mai esserlo, ad esempio, sull’argomento criminalità, dove la sinistra è colpevolmente lassista, o nel ramo che definisco “politically stronzett”, o in certe tafazziane pulsioni antioccidentali - per me "sinistra" vuol dire socialdemocrazia alla scandinava, o alla tedesca, non certo Pol Pot, e neppure Togliatti). A 27 anni stavo per esordire con un romanzo, il famigerato “Squillo boy”, che era al tempo stesso scandaloso, trasgressivo, anticonformista, anticlericale, antisistema, insomma, più “de sinistra” di così… E invece, la scusa con cui due editori si rimangiarono la parola data a me e a chi mi rappresentava fu che il mio romanzo non era “ABBASTANZA di sinistra”. Che poi, se si trattasse dell’autore, uno può sempre fingere e prendersi una tesseraccia di partito, ma se “non abbastanza di sinistra” è il testo, è una tragedia! Allora mi parve una crudele presa in giro, poi capii. Per questi khmer rossi (mediocri come tutti gli indottrinati) a mancare al romanzo erano (e per fortuna!) i pedanti cliché della letteratura “de sinistra” italiota: il mio boy diventava squillo per il piacere perverso del brivido, mentre invece avrebbe dovuto essere il solito meridionale (ma oggi sarebbe un “migrante”) disoccupato e tossico, con trascorsi nei centri sociali (e in galera) e quattro figli a carico, che sogna un posto in una bella fonderia cancerogena e intanto si prostituisce controvoglia per pagare le rate del motocarro (dentro cui tiene ovviamente un’immaginetta del Che Guevara…) Questo è il livello. Queste sono le persone da cui non vorrei più essere pubblicato nemmeno se mi offrissero miliardi.

Qual è il peccato mortale dell’editoria? E non ne salvi nulla?
Troppi ce ne sono. Te ne dico uno piccolissimo, solo come esempio, e senza nulla, ma proprio nulla di personale. Io credo che saprei essere molto più divertente di Panariello anche come comico televisivo. Ma non vado a invadere il suo campo. (E se anche volessi, non mi lascerebbero). Lui invece è libero di invadere il mio. Grazie ai signori editori che glielo permettono, o addirittura vanno a cercare i personaggi come lui per monetizzare i loro nomi famosi. (Con la complicità dei giornalistozzi che titolano “Bonucci diventa scrittore”, mentre se io provassi a scendere in campo contro la Lokomotiv Mosca non direbbero “Pezzoli diventa difensore centrale” bensì “Pazzo furioso tenta di giocare una partita di Champions”. Eppure le due assurdità sono assolutamente equivalenti, anzi, la prima è più grave, perché io da ragazzino a pallone ci ho giocato!!) Certi camerieri dell’editoria in servizio permanente sostengono che poi questi soldi verrebbero reinvestiti per valorizzare nuovi talenti. Ma sappiamo che non è così. La grande editoria italiana non scopre un nuovo talento dai tempi di Aldo Busi. E pure lui non è che mi facesse impazzire. Quanto alle cose da salvare, con i piccoli editori ho avuto (e dato) le mie soddisfazioni, ma nel complesso si tratta di un ambiente in cui chi mi ha trattato meglio mi ha trattato da figliastro. E dove il mio dire quello che penso, senza peli sulla lingua, ha sempre infastidito tutti.

Parliamo un po’ del sottobosco editoriale. In Italia c’è un doppio problema. A sentirsi scrittori sono milioni. Troppi. A far gioco sulla loro sciocca ambizione spuntano ogni anno centinaia di nuovi soggetti, allargando un campo fatto non solo di pubblicazioni a pagamento, ma anche di discutibili servizi, presunte consulenze, editing “preliminari”. Troppi anche loro. Da che parte sta il principale torto?
Mi credi se ti dico che non riesco a decidermi? È come quando vedi due persone che ti stanno sulle palle fare a botte, e finisci con lo sperare inconfessabilmente che si ammazzino a vicenda. Quando penso ai nugoli di incapaci che infestano le redazioni con le loro cavolate, impedendo così anche a te vero scrittore di essere almeno letto e preso in considerazione senza santi preventivi in paradiso, mi viene da dire che se poi trovano qualcuno che li illude e li spreme se la sono voluta e cercata, e se la meritano. Ma quando penso a chi riesce a guadagnarsi da mangiare sfruttando in mille modi questa gente qua (e che a volte ha il coraggio di provarci pure con me), non riesco, proprio non riesco a provare simpatia. Anche in questo senso, evviva Amazon!

Nick, non ti senti un po’ malato di mente?
Soltanto un po’, dici? Ovvio che lo sono. Per fortuna mia e dei miei 24 lettori. La Narrativa la stanno assassinando i normalozzi, mica i pazzi.

Mi condensi il tuo rapporto con editori & limitrofi in una lapidaria battuta finale?
Solo una cosa è peggiore del gettare perle ai porci: proporle a gioiellieri che preferiscono le ghiande.


lunedì 28 ottobre 2019

Paolo Zardi - L'INVENZIONE DEGLI ANIMALI


L’invenzione degli animali di Paolo Zardi (Chiarelettere) è un thriller fra l’antropo-biologico, l’etico-genetico e il fantascientifico (ma sarebbe più esatto dire scientifico-predittivo: a quel punto stiamo per arrivare, o forse ci siamo già) talmente godibile, originale, avvincente e ben scritto da non sembrare neppure… italiano. 
(Lo considero il più bel complimento: quando lo dicono a me mi commuovo e mi esalto, e mi sento davvero Scrittore, visto che “scrittore italiano” negli ultimi trent’anni è diventata quasi una contraddizione in termini). 
Soprattutto per il modo in cui profondità, sapienza, accuratezza e intelligenza si sposano a leggerezza e leggibilità, laddove i secchioncelli italioti medi contemporanei (vere negazioni viventi dell’Arte di Scrivere) ritengono che produrre un romanzo oggi significhi dimostrare a ogni illeggibile pagina di “avere studiato”, un po’ come fanno quei somari col cervello piccolo, ma saturo di nozioni, che di imperversare in burocratese, medichese o filosofese addirittura si vantano. (Per non parlare delle lezioncine di perfezione politico-ideologica: qui, ovviamente, non ne troverete. O al massimo le intuirete, volendo, fra le righe, senza stucchevoli proclami o manifestini sul genere “fascistometro”).

Non c’è momento in cui non si capisca che Paolo sa benissimo di cosa sta parlando, che è padrone della materia e della storia in tutte le sue implicazioni e diramazioni, che non si arrampica sugli specchi, che è dentro i suoi giovani e palpitanti personaggi, che si è documentato leggendo con passione (una passione tramandata dal padre, cui il libro è con amore dedicato), che possiamo farci prendere per mano da lui e seguirlo con fiducia perché lui è pienamente conscio di cosa sta narrando, eppure mai, neppure una volta, l’autore asseconda quel vizio detestabile di stordirci e di trivellarci la minchia con terminologie incomprensibili di stretto gergo tecnico: essendo un più che valido narratore, non ha nessun bisogno di mettere sotto i nostri occhi i singoli risultati di un inevitabile lavorio di documentazione e approfondimento, ché quelle sono fasi preventive e intermedie, impalcature da far sparire quando l’edificio è completato. (Mi viene in mente il bravo Jonathan Lethem, quando in Anatomia di un giocatore d’azzardo racconta magistralmente una lunghissima e delicata operazione di plastica facciale, senza scomodarsi nemmeno una volta a fare il saputello terminologico da sala operatoria, anche se da come scrive risulta ovvio che ha indagato a lungo e che sa: ma vallo a far capire a quegli scribacchini e scribacchiotte che se il protagonista è un chirurgo scrivono in modo più astruso e ostile di una ricetta specialistica, per sbatterti in faccia i risultati della loro accurata ricerchina!)

Uno dei tanti meriti di Paolo è quello di saper rendere per certi versi convincenti e affascinanti anche (e soprattutto) i monologhi dei “cattivi”. Ascoltare il cattivissimo Kapoor (personaggio che mi è odioso) e le sue perfide, ciniche, ma tutt’altro che stupide idee (non metto assaggi qui per non guastarvi l’appetito) è una vera goduria.

I sempre più rari amanti della bella lettura lo sanno: un libro siffatto (che si pone fra Houellebecq e Michael Crichton) è un felice compagno che da un certo punto in avanti ti tiene inchiodato sul divano (possibilmente con un gatto in grembo, se hai la fortuna di averlo) fino alla fine – e tutto il resto si fotta.

È come se il mio illustre collega Paolo Zardi avesse voluto “punirmi” per la mia insistenza nel definirlo più bravo sul breve, più portato a scrivere racconti. Mai punizione giunse più gradita: questo è un Romanzo che meriterebbe di diventare un bestseller internazionale.

Non fatemi incazzare.

Parola di Scriba.


martedì 22 ottobre 2019

Richard Yates - PROPRIETÀ PRIVATA


Il modo in cui l’eccellenza di uno scrittore viene o non viene riconosciuta non smetterà mai di essere, per me, un affascinante mistero. E non parlo della deprimente cloaca dell’oggi, in cui facilmente tanta merda viene pompata e spruzzata in giro in maniera disonesta e stomachevole grazie agli usi distorti e sleali che si fanno dei sempre più potenti (e prepotenti) mezzi mediatici, e alla dabbenaggine di chi se ne lascia manipolare e prendere per i fondelli. No, stavolta sto parlando in generale, e nel particolare mi sto riferendo ad autori americani di tanto tempo fa. Per dire: io non nego certo la grandezza di quei magistrali autori di racconti che sono Cheever e Carver (o anche Ford, che a differenza dei primi due è ancora vivo, e che qui da noi è diventato di moda proprio negli ultimi tempi) eppure non posso non notare come il quasi misconosciuto Richard Yates sia di mezza spanna superiore a tutti loro, che vengono di continuo lodati sulle pagine culturali e nei circuiti accademici, e consigliati a tutto spiano da tanti librai. (Altri due che non sento consigliare, incredibilmente, mai sono Malamud e Barthelme, anche se forse Barthelme è un discorso a parte: un genio troppo genio, che non a tutti piace – a me ovviamente sì). Opinione personalissima, s’intende.
E sia chiaro che John Cheever lo adoro. (Carver e Ford un po' meno, ma neppure li disprezzo).
Però ho appena finito di deliziarmi leggendo la piccola raccolta “Proprietà privata”, tradotta in modo splendido da una bravissima Andreina Lombardi Bom: ebbene, si resta increduli nell’apprendere che tale bendidio è considerato quasi “materiale di scarto” (racconti inediti e racconti apparsi soltanto su riviste!), perché già questi conferirebbero a Yates il diritto a un posto fisso nell’Olimpo dei giganti. Una scrittura nitida, vivida e intelligente, personaggi che ti sembra di poter sfiorare con mano per accarezzarli o picchiarli, uno stile scintillante eppure semplice, leggero, e quella capacità di essere al contempo toccante e divertente, pietosissimo e perfido, che solo i grandi fra i grandi riescono ad avere e a coltivare. 
(Su tutto risplende una gemma: il racconto “Il revisore e la bufera” che possiede l’assoluta, appassionante, goduriosa perfezione di un microromanzo di ventisei pagine).
Trovatevi e leggetevi i suoi libri, non fatemi incazzare e segnatevi ‘sto nome: Richard Yates.


venerdì 4 ottobre 2019

Nicola Pezzoli - IL VOLO INTERROTTO DEGLI ANGELI

e-book e cartaceo, SOLO su Amazon

«Mi sono sognato cocomeri blu, melloni di polpa di cielo, e nu veliero che scivolava su nu mare lucente fatto no d'acqua ma di specchio».

Bovisa, periferia milanese, novembre 2007. Mattia è un ragazzino introverso che vuole bene solo alle tartarughe. I suoi giorni si trascinano uggiosi, fra una madre vuota e civettuola, il cui unico interesse è rappresentato dal reality La finestra sul porcile, al quale sogna di partecipare, un padre con trascorsi da boxeur – separato dalla moglie ma incombente – che vorrebbe fare di lui un vero uomo “chiavatore e pugile”, e i bulli del liceo che non lo lasciano in pace.
Una sera, in modo fortuito – Mattia siede sconsolato sul pianerottolo al terzo piano del palazzo in cui abita, tenendo fra le mani il corpo senza vita di Mordikai, la sua tartaruga acquatica – grazie a un ascensore chiuso male conosce Gabriele, un trentaseienne stranoide e solitario quanto lui, che per dargli conforto suggerisce di andare insieme a seppellire la tartaruga sotto un tappeto di viole nell’aiuola più bella della città. Nascerà così un’intensa amicizia, a dispetto della differenza d'età e del fatto di potersi vedere solo poche ore, il venerdì pomeriggio, nell’appartamento-ludoteca del Peter Pan Gabriele al quarto piano, fra giochi, dolciumi, musiche, misteriosi dvd di fantascienza, condivisione di progetti e di sogni a occhi aperti.

Gabriele è pieno di segreti. Si dedica all’assistenza di bambini malati terminali. Ma lo fa come volontario, per un rimborso spese che consente a malapena di pagarsi i mezzi pubblici per raggiungere la clinica fuori città, e coi giocattoli e i libri di fiabe che regala ai suoi piccoli amici ci va in perdita. Da vivere si guadagna col poker sui siti stranieri (illegali) e con le scommesse sul calcio. È un giocatore fortunato e abile, ma come accade a tutti i giocatori la rogna nera sta in agguato, e con essa il ricorso, rovinoso, agli strozzini. Né sarà questo l’unico guaio: Gabriele, sul piede di guerra contro lo scarso utilizzo di antidolorifici, da qualche tempo lenisce le sofferenze dei suoi malati somministrando di nascosto morfina per bocca. Ma verrà scoperto e cacciato in malo modo da quello che era il suo unico contatto col mondo degli altri (non che pure lì fossero rose e fiori, a causa di un’infermiera ostile e del minaccioso incombere di una lobby di clown).
Gabriele non è quello che si direbbe “un buon esempio” per il quindicenne Mattia: non lavora, gioca d’azzardo, traffica con la droga per quanto a fin di bene, e si vanta di essere un puttaniere sporadico. Ma gli orrendi genitori del ragazzino, di tutto questo, non sapranno mai nulla. Né ce ne sarà bisogno: per mettersi contro quell’idillio così insolito, e per loro – per chiunque? – sospetto, basterà molto meno: basterà scoprire l’incauto regalo di un braccialetto rosso come pegno d’amicizia.

Il padre, “ombra scimmiesca sui muri del mondo”, lo porterà via senza preavviso per fargli cambiare scuola e città, e iscriverlo d’ufficio alla nuova palestra che gestisce, sottraendolo a quelle che agli occhi suoi e della ex moglie sono le morbose attenzioni di uno squilibrato e di un pervertito.
Dal canto suo Gabriele, per sfuggire agli sgherri dello strozzino che si son fatti più violenti, sarà costretto a sparire e a rifugiarsi in un’infima pensione, così da rendere in apparenza impossibile il ricongiungimento. In apparenza, poiché a distanza di mesi, grazie all’aiuto del più improbabile dei personaggi – da cui nessuno si sarebbe aspettato niente di buono – i due riusciranno a ritrovarsi in circostanze fortunose e drammatiche, e a iniziare una fuga in treno verso il mare e verso una tragedia annunciata, in un finale movimentato e non certo avaro di colpi di scena, fra inseguitori che si moltiplicano, telegiornali sciacalli e sconvolgenti rivelazioni (la principale riguarderà la madre, divenuta “Pamela della Finestra sul porcile”). 

Con questo nuovo romanzo, Nicola Pezzoli ha voluto sperimentare una narrazione a più voci, nel solco di Mentre morivo di William Faulkner. Ne scaturisce un coro multiforme in cui la freschezza gergale di Mattia, la dolcezza un po’ ingenua di Gabriele, e la poesia (mai retorica e scontata) dei pensieri dei ragazzini morituri vanno a cozzare contro la stupidità, banalità, avidità e violenza degli altri personaggi, producendo scintille e stridore, generando effetti di contrasto ora comici, ora drammatici, ora grotteschi.
Con una bella storia nella storia (una fra tante, perché questo è un autore pirotecnico che non lesina spunti): quella (vera) del “Beijoqueiro”, uno svitato baciatore compulsivo brasiliano il cui principale record non sono le migliaia di baci dati a sconosciuti, ma i ricoveri ospedalieri e le nottate in gattabuia con cui veniva ripagato per il suo imperdonabile affronto.

Vi ricordo che i link sottostanti non servono solo per l'eventuale acquisto, ma anche, volendo, per assaggiare gratuitamente i primi capitoli.






lunedì 30 settembre 2019

NÉ SANTO, NÉ ATTILA - sincero esamino di coscienza sul mio impatto ambientale individuale


NÉ SANTO, NÉ ATTILA

PREMESSA
In linea di principio io sto al cento per cento con le persone (di ogni età) che si preoccupano per l’ambiente, ma occhio ai fanatismi da savonarola frangipene, e ai depistaggi. Siamo quasi otto miliardi a infestare il pianeta (e tutti caganti), ma nelle recenti manifestazioni non ho visto un solo slogan contro la proliferazione umana. 
Raccomandare una genitorialità responsabile e matura, un deciso freno alla folle crescita esponenziale, distribuire a pioggia pillole e preservativi a tutti gli stronzi che vivono per scopare ma non vogliono saperne di “tirarlo fuori” al momento opportuno, smettere di essere per il nostro pianeta un gigantesco tumore a forma di pantegana, dovrebbe essere un po’ più importante del caramellare moralisticamente la mynkhja a chi beve il latte, a chi si fa una doccetta troppo lunga o troppo tiepida, o a chi compra cibo per gatti… 
E magari, sull’altro fronte, un po’ meno colpevolizzazioni a nastro dello “stile di vita occidentale”, che non è il Male di per sé: Copenaghen nel 2025 sarà la prima città mondiale ad “emissioni zero”, e non sta in Madagascar.


SINCERO ESAMINO DI COSCIENZA 
SUL MIO IMPATTO AMBIENTALE INDIVIDUALE

A] Aspetti in cui mi sento già relativamente virtuoso

1 Non ho mai buttato nel cesso o nella spazzatura un solo grammo di pasta o una sola briciola di pane (li considero dei peccati imperdonabili) o alimenti lasciati scadere: acquisto con oculatezza, cucino in giuste dosi, se ci sono degli avanzi li riutilizzo per i pasti successivi.
2 Faccio la raccolta differenziata.
3 Riscaldo a gas metano (non superando, d’inverno, i 20 gradi), guido un’utilitaria a benzina con cui faccio pochissimi chilometri, vado a piedi il più possibile.
4 Non prendo aerei.
5 Non acquisto scarpe o indumenti oltre lo strettissimo, ma davvero strettissimo, necessario.
6 Lo stesso dicasi per elettrodomestici o dispositivi tecnologici (mai avuta una lavastoviglie).
7 Non getto mai a terra nulla, neppure una carta di caramella.
8 Dal 2017 produco libri cartacei stampabili solo su ordinazione, evitando di contribuire al macero annuale di milioni di volumi invenduti.
9 D’estate riesco quasi sempre a non usare condizionatori, ma se mi trovo in zone dove è necessario usarli non scendo mai sotto i 25 gradi.
10 Pur non imponendomi diete mortificanti, autoflagellanti e assurde, evito di abbuffarmi e di “vivere per mangiare”.
11 Non premio con la mia attenzione (mai, neppure per un secondo) attività che considero altamente e futilmente inquinanti come corse automobilistiche e motociclistiche o esibizioni militaroidi tipo freccetricolori.

B] Aspetti in cui posso migliorare

1 Diminuire ulteriormente il consumo di carni e salumi, e se ci riuscirò, col tempo, eliminarli.
2 Eliminare totalmente le bottiglie di plastica.
3 Abbandonare saponi liquidi e docciaschiuma e ritornare alle saponette.
4 Privilegiare, quando è possibile, prodotti più cari ma meno inquinanti (dalla stampante laser allo spazzolino da denti in cui cambi le setole ma tieni sempre lo stesso manico).
5 Cagare meno. (Sto scherzando).

C] Aspetti che, sinceramente, NON HO NESSUNA INTENZIONE DI CAMBIARE

1 Bere latte, mangiare uova, burro e formaggi: vegetariano posso anche vedermici, ma diventare vegano richiederebbe una vocazione al martirio che non mi appartiene: mi dispiace, ma la mia natura onnivora non è in discussione.
2 Godermi lunghe docce calde che facciano anche da idromassaggio e garantiscano un buon ristoro fisico e mentale, senza la pugnetta di chiudere per insaponarsi e poi riaprire, o di fare docce gelate di diciotto secondi per poi vantarsene e giudicare gli altri. Stiamo scherzando?
3 Tenere un gatto e nutrirlo come si deve (ci mancherebbe altro!)
4 Continuare a leggere e collezionare meravigliosi libri di carta (anche se può sembrare in contraddizione col punto A8, odio gli ebook, e i libri altrui che mi piacciono e mi interessano non sono quasi mai prodotti on demand).


mercoledì 11 settembre 2019

Bisogna avere le cosiddette palle

«Scrittore assoluto e vera e propria anomalia nel panorama letterario italiano contemporaneo... 
Ciò che colpisce nuovamente in questo romanzo è il pastiche esplosivo di un Pezzoli ormai liberato da ogni briglia esterna, questo “argot” da Valcuvia bisessuale sparato come un razzo nell'universo, queste pagine/universo/stanzetta sensibili e insieme fisicissime, da vero scorticamento, da abbraccio che lascia senza respiro, questo stile che imperversa muovendo le pagine, questa carne che piange sofferenza e sorrisi, questo suono che mentre si legge rimbomba in testa e che riecheggia le parole di Céline».

Bisogna avere le cosiddette palle per decidere di recensire con entusiasmo un romanzo di alto livello, MA AUTOPRODOTTO, come “gigoló per cliente unica”. 

Andrea Consonni lo ha fatto su Wrong, uno dei pochi blog in cui ancora si dice pane al pane, merda alla merda, scrittore a chi è scrittore.




domenica 8 settembre 2019

Finalmente disponibile il cartaceo de "LA CAMPAGNA PLAXXEN"



Torna finalmente disponibile la versione cartacea de "LA CAMPAGNA PLAXXEN", reimpaginata e a prezzo più abbordabile (12 euro anziché 25). 
Solo su Amazon.

«Una storia di clochard più o meno volontari, un fosco noir metropolitano con finale thrilling, una feroce satira del mondo della pubblicità e dei consumi compulsivi. E l’inno d’amore di un padre separato per il figlio down. Il tutto visto attraverso il pazzo mondo dei blogger».



martedì 27 agosto 2019

Altre letture estive (3)


RACCONTI DA RIDERE – Un’antologia curata da Marco Rossari (molto bravo, acuto, appassionato, simpatico e coinvolgente nelle parti introduttive, questo gli va riconosciuto, e forse un po’ meno bravo nella scelta di alcuni brani).
Voto medio ai racconti: 7.07
Nel complesso è una compilation gustosa e intrigante, ben bilanciata, anche se si apre un po’ autolesionisticamente con una serie di racconti antiquati, stantii, raffinatini e puerili (io sarò un rozzo lettore e un ancor più rozzo scrittore, ma l’unica possibilità che gente come P.G. Wodehouse ha di farmi ridere con robette come questa “lotteria dei grassoni” è inviare un fantasma a farmi il solletico in zona ombelicale…)
Ma forse il primo ingenuo difetto del libro sta proprio nel titolo: ricorda un po’ quelle persone goffe e sgraziate che, non contente di non saper raccontare aneddoti o barzellette, pensano bene di preannunciarne l’arrivo con la raggelante frase: “Adesso vi faccio ridere”. Dopodiché non riderà nessuno, mai. 
Qui però, anche se non sempre e non tantissimo, si ride.

A costo di passare per un maestrino che si diverte a dare i voti, credo che il modo più utile e onesto di valutare questa raccolta sia di fornire per ogni autore, e relativo racconto, una scheda più concisa possibile, accompagnata da una valutazione da 1 a 10 (da cui la media segnalata poco sopra).

Avvertenza. Onde evitare lunghe ripetizioni, ho deciso di battezzare in modo del tutto arbitrario come “Difetto 14” una magagna ricorrente: per “Difetto 14” intendo tutti quei casi in cui un racconto parte con uno spunto davvero originale, quasi geniale, ma poi si arena in uno sviluppo prevedibile, pedissequo, scontato, come un’equazione matematica, finendo col tradire le promesse e col diventare mortalmente tedioso, e allora, per quanto breve possa essere, tu che lo leggi non vedi l’ora che… finisca!

P.G. Wodehouse
Umorismo datato, scialbotto, quasi infantile (quand’ero piccolo mio padre lo chiamava “spirito di patata”, o anche “spirito di Topolino”), vetero-anglosassone nella sua accezione peggiore. Proporlo in apertura è una scelta che rasenta l’autogol. (Stavo per non dirlo per non infierire troppo, ma… “Difetto 14” in tutto il suo malefico splendore).

Achille Campanile 6- 
Spunto originale e carino, ma il risultato è un raccontino insipido e superfluo.

Dorothy Parker  
Una robina insulsetta, banale, insignificante, con l’aggravante di una prolissa malagrazia (nel breve, il che è incredibile) che risulta irritante, soporifera e fuori luogo. Nella prima parte si dilunga a descrivere un tizio famoso per far ridere con le sue battute, riuscendo nella monumentale impresa di non far neppure sorridacchiare stancamente, ma neanche mezza volta. Mah.

Alan Bennett 9
Finalmente una perla di comicità intelligente, piena di ritmo, di brio, di piccole sorprese e momenti spassosi. Grande Alan!

James Thurber 7+
Non un capolavoro ma divertente assai, col guizzo di genio della disputa coniugale su Greta Garbo e… Paperino.

Stefano Benni
Qui forse non nel suo stato di grazia, ma fra gli italiani proposti è di gran lunga il migliore (non che ci volesse molto, visto che mancano all’appello Flaiano, Rodari, Bergonzoni, Pezzoli… Ma persino fra gli stranieri ci si è dimenticati di qualcuno molto bravo – Auslander, tanto per dirne uno. Un grande merito a Marco Rossari va però riconosciuto: si è comunque concentrato – piacciano o non piacciano – su scrittori veri, lasciando fuori il guittume televisivo e altri usurpatorelli assortiti, e di questi tempi non è cosa da poco).

Irvine Welsh 6
Forse il più lampante esempio di “Difetto 14”: l’autore ci stende con la trovata geniale delle ragazze famosissime (cantanti e attrici) che fanno impossibili sogni a occhi aperti leggendo le gesta gossippare di hooligans del calcio e altri oscuri energumeni, dopodiché ci annoia a morte sviluppando il temino nel modo più scontato e ripetitivo possibile.

Tiziano Scarpa 6+
Un pezzo un po’ pretenzioso, che vuol sembrare chissà che, ed è invece insignificante e moscio, non dice nulla, non propone nulla, al di fuori di qualche sprazzo di buon esibizionismo descrittivo (perché l’autore sa scrivere, eccome!). Soprattutto non diverte neanche un po’. Perché inserirlo in un libro intitolato “Racconti da ridere”?

Nora Ephron 6-
Raccontino arguto e autoironico, ma fondamentalmente insulso e spaccamaroni. Pare tratto da uno di quei rotocalchi femminili che circolano dalle parrucchiere e nelle sale d’attesa dei dentisti, e forse è davvero così.

David Sedaris 7- 
Ingegnoso brano al vetriolo, ma non esente dal “Difetto 14”: la caduta dei protagonisti in un precipizio di demenzialità segue inesorabili cadenze matematiche, e più vuol sorprendere o scioccare meno ci riesce. (Ad ogni modo, ecco un autore che mi era del tutto sconosciuto e che ha stimolato la mia curiosità, e per un’antologia questo è sempre un grande merito, se non il merito principale).

Martin Amis
Un geniale spunto (inversione di ruoli, notorietà e fortune fra poeti e sceneggiatori di cinema, coi primi a far milioni d’incasso con singole poesie e i secondi, disperati e frustrati, a nuotare nei bassi fondali della cultura alternativa…) che era a forte, fortissimo rischio di “Difetto 14”: e invece l’autore, essendo uno dei più grandi scrittori di sempre, riesce a tenersene alla larga con brillante spavalderia.

Charles Bukowski 9
Semplicemente meraviglioso (e la cosa non mi stupisce) il racconto dello zio Buk. Ma bisognava dare una rispolverata alla pessima traduzione, con quel verbo “badare” assurdamente usato (più volte) al posto di “continuare” che mi aveva indispettito già la prima volta che lo lessi…

Umberto Eco 7+
Più che geniale l’idea di ribaltare “Lolita”, col protagonista che diventa gerontofilo. Peccato non si sia fermato all’incipit o poco oltre, perché poi fa morire di noia sprofondando di brutto nel “Difetto 14”, con l’aggravante di un registro eruditoide e pedante che non ha assolutamente nulla a che vedere con quello del capolavoro di Nabokov. La parodia della perfezione dev’essere perfetta, altrimenti zoppica e fa addormentare.

Margaret Atwood 7-
Satira del politically correct, intelligente, pungente (e meritoria!) ma piuttosto ovvia e scontata, come te la potresti aspettare dalla penna di una brava quindicenne. 

Mark Twain 8-
Gustosissima parodia dell’Antico Testamento, che ha forse il torto di osare poco per paura di incorrere nella blasfemia (ma vista l’epoca in cui scriveva lo possiamo perdonare). Comunque tanta roba.

Michele Mari
Abbiamo qui il raccontino saporito (ma un po’ déjà vu) di un ragazzino che vuol vedere per la prima volta una figa, e si riduce ad approfittarsi della scema del villaggio. Carino ma nulla più, e forse penalizzato dalla scelta di un linguaggio fin troppo forbito, professorale (l’ho sempre considerato un handicap di questo bravo autore), che dovrebbe far ridere per contrasto ma ci riesce solo fino a un certo punto. Molto bello e tenero il finale, ma siamo sempre lì: se mi intitoli l’antologia “Racconti da ridere”…

Slawomir Mrozek 5-
Questa storiella potrebbe essere usata come dimostrazione (in negativo) di come anche il nonsense abbia bisogno di un minimo di senso. Se mi scrivi la storia di un conte che per eccitarsi e trombare ha bisogno (in contemporanea) di una truppa di fanteria che gli marci sotto le finestre, di violinisti che gli suonino dal vivo in camera, di un orso non addomesticato e incazzato messo sopra una roccia artificiale, e poi mi fornisci pure le spiegazioncine di psicologia dell’età evolutiva che stanno dietro a tutto questo, non solo non mi diverto io a leggere, ma mi viene da chiedermi come diavolo abbia fatto a divertirti tu mentre scrivevi.

Anton Cechov
Che dire: forse anche qui quel poco di comicità si nasconde nella tragica stupidità del protagonista, e nella perfidia del finale (che sarebbe una folgorante sorpresa, se non fosse, mi permetto di dirlo, per l’imperdonabile errore del titolo che l’anticipa!), e forse anche qui abbiamo un testo sabotato da traduzione in italiano vetusto (i participi passati accordati al femminile, la parola “sollecitatori”, e quell’inguardabile “in istrada”) eppure la grandezza del Maestro rifulge a ogni riga, e a dargli un voto più basso mi sarei sentito un bestemmiatore, o uno sciocco.

Nikolaj Gogol’
Un racconto (“Il naso”) famosissimo e magistrale, ma non esattamente scompiscioso, se non in un paio di momenti felici. E decisamente troppo lungo rispetto agli altri della raccolta. (Lo so, sono uno spaccaballe, ma non mi sembra una controindicazione dappoco: proprio perché si tratta di un classico conosciutissimo, lo si poteva rimpiazzare con due o tre racconti più agili e freschi, e un po’ più divertenti). Per traduzione e voto, vale quanto detto a proposito di Cechov. (Ora che ci penso, anche quello di Martin Amis era quasi della stessa lunghezza, solo che in quel caso, chissà perché, non me n’ero reso conto…)

Jorn Riel 8-
Be’, questo Riel non mi ha esattamente conquistato ma mi ha incuriosito, perché il suo racconto, pur non straordinario, è decisamente stravagante, piacevole e ricco di significati.
Interessante anche come persona, per le sue particolarissime scelte professionali e di vita.

Joe R. Lansdale 8
Un pezzo brevissimo che risulta originale, travolgente, intelligente, brillante, carino. Lansdale, che a volte ho adorato e quasi idolatrato (“La sottile linea scura”, per dire un titolo meraviglioso) e altre volte detestato per le sue cadute nella più puerile e goffa insulsaggine, quasi che a scrivere fosse un altro, una controfigura (“La foresta”, per dirne uno che fa cagare) qui conferma di essere, in generale, un Grande.

Donald Barthelme 10
Oh, finalmente! È di perle simili che un’antologia di racconti umoristici dovrebbe essere farcita! Ma la genialità pura è dono di pochi, e davanti a questo puro genio m’inginocchio. Se non avete letto i suoi libri, fatelo!!
(Potete cominciare, senza indugio, con "Ritorna, dottor Caligari".)

Heinrich Böll 8-
Insomma, finale decisamente in crescendo. Bravo anche Böll. E bravo Rossari.


venerdì 16 agosto 2019

Altre letture estive (2)


Philip Roth – HO SPOSATO UN COMUNISTA
Voto: 8-

Non il miglior romanzo di questo grandioso scrittore. Mi è parso un libro mal congegnato, prolisso, strutturalmente zoppo, amorfo, involuto: la quasi totalità del testo si basa sul monologo ben più che torrenziale di un novantenne, che obbliga il lettore ad ampie concessioni sulla credibilità del timing. (Non puoi far parlare uno per 90 pagine e poi dire che ciò è avvenuto nel tempo di “sorbire un martini”. Io sono un centellinatore di alcolici, ma lì di martini ce ne stavano venti o trenta. E verso la fine, giunti a pagina 283, Roth pensa di cavarsela così: «Potrei ascoltare per tutta la notte – gli dissi – ma forse è bene che tu dorma un po’. Nel pantheon dei narratori, hai già strappato il titolo a Sheherazade». Mah.)

Eppure, scremata via quel po’ di noia a cui Roth non sa mai rinunciare, quasi avesse paura di non sembrare abbastanza serio, complesso e profondo, scremato via quel po’ di déjà vu, e quel po’ di pesante-zavorresco che sempre hanno gli argomenti politici nelle opere d’arte narrativa, rimane comunque un gran buon libro.
Mirabile il modo in cui mette in (tragico) ridicolo la devastante opera degli zelanti fanatici bigotti e degli stronzi burattini affamati di fama e potere, senza per questo mancare di mettere in risalto l’antitetico (e spesso patetico) zelante fanatismo trinariciuto di certi “buoni, duri e puri” militanti.
Ma è soprattutto un romanzo che contiene Parole Dannatamente Sante come queste:

«Chi le ha insegnato che l’arte è solo una serie di slogan? Chi le ha insegnato che l’arte è al servizio del popolo? L’arte è al servizio dell’arte: altrimenti non esiste arte degna dell’attenzione di chicchessia. Per quale motivo si fa della letteratura seria, signor Zuckermann? Per disarmare i nemici del controllo dei prezzi? Il motivo per fare della letteratura seria è fare della letteratura seria. Lei vuole ribellarsi alla società? Le dirò io come si fa: scriva bene. Vuole abbracciare una causa persa? Allora non si batta per la classe lavoratrice. Se la caveranno benissimo senza di lei. Si riempiranno di Plymouth finché non saranno sazi. Il lavoratore ci conquisterà tutti: dalla sua noncuranza deriverà la sbobba che è il destino culturale di questo paese filisteo. Presto avremo in questo paese qualcosa di molto peggio di un governo di contadini e di lavoratori: avremo la cultura dei contadini e dei lavoratori. Vuole una causa persa per cui battersi? Allora si batta per il verbo

E come queste:

«Non devi scrivere per legittimare il comunismo e non devi scrivere per legittimare il capitalismo. Sei estraneo all’uno e all’altro. Se sei uno scrittore, non ti allei né con l’uno né con l’altro. Sì, vedi le differenze, e naturalmente vedi che questa merda è un po’ meglio di quella merda, o che quella merda è un po’ meglio di questa merda. Molto meglio, forse. Ma la merda tu la vedi. Non sei un funzionario governativo. Non sei un militante. Non sei un credente. Sei uno che affronta il mondo, e ciò che vi accade, in un modo assai diverso».

E poi, una delle chiusure più belle e lapidarie della storia della Narrativa:

«Le stelle sono indispensabili».

Talmente bella e lapidaria (e ricca di significato) che di sicuro l’editor italiano medio avrebbe tentato di eliminarla, inarcando le sopracciglia e bofonchiando: “Troppo ad effetto, Philip, troppo compiaciuto!” (Di cosa poi sarebbe stato capace costui pur di smantellare le Parole Sante antipolitiche di poco più sopra – se avesse avuto l’ardire di scriverle un esordiente nostro connazionale – ve lo lascio semplicemente immaginare…)

Non vi consiglio di comprarlo, perché se poi non vi piacesse mi sentirei, onestamente, in colpa. (Lo sapete, questo blog ha tante pecche, ma qui si danno soltanto consigli sinceri e onesti, basati sulle pure Emozioni provate al cospetto dell’opera d’arte).
Ma vi ripeto che non è un bruttissimo libro.
E non è un libro superfluo.

Parola di Scriba.


sabato 10 agosto 2019

Altre letture estive (1)


Walter Tevis – L’UOMO CHE CADDE SULLA TERRA.

Voto: 8

Chi come me si sente un po’ alieno in mezzo ai terrestri non dovrebbe perdersi per niente al mondo questa piccola gemma narrativa.
Un romanzo originale, avvincente, acuto, struggente, scritto bene: vivamente consigliato da Zio Scriba.



giovedì 1 agosto 2019

TRANCI DAL MIGLIOR ROMANZO ITALIANO DELL'ANNO. (Ma non lo troverete fra i premiozzi, e neppure in libreria, com'è giusto che sia. E-book e cartaceo SOLO su AMAZON).


Avevo anche provato a sguazzare nei fondali bassi del giornalismo di provincia, conquistando non si sa come una pagina tutta mia su una rivista cittadina. Potevo scriverci quello che volevo! Mica male, come chance per un ragazzotto. Attaccai Khomeini e non mi successe niente. Attaccai la Democrazia Cristiana e non mi successe niente. Attaccai certi cuor di leone che sparavano col fucile ai pettirossi, e venni licenziato. Questione d’inserzionismo: gli Ayatollah dell’Iran non compravano spazi pubblicitari sulle riviste varesine, gli armaioli della zona sì.

Loro non lo sanno, ma il vantaggio delle primissime eiaculazioni è che viene fuori una gocciolina concentrata, acquosa e trasparente, quasi invisibile, non rintracciabile, e la goduria è di gran lunga superiore a quella degli orgasmi adulti – forse per via del mistero, della novità, della sorpresa – ma insomma non sporchi e non lasci traccia, per cui mi scopavo di tutto, dai cuscini piacevolmente urticanti del divano in sala (mentre i genitori in cucina sorseggiavano il caffè Paulista) ai copriletti in camera mia. Nessuno si accorgeva di niente. Poi chiedevo scusa al Dio di Paura, a questo spauracchio cagacazzo e notaio delle goccioline altrui, e gli promettevo, chissà perché, di non farlo mai più. 

Ma stamattina lo subisco anch’io, lo stupro di qualcuno che mi paga uno stipendio. Devo scendere verso l’incrocio, e immettermi nello sciabordante scorrere dell’incubo su ruote. Attenzione. È pericoloso. Eccomi inserito. Eccomi fagocitato. È più di quanto si possa sopportare. È così ogni mattina, per voi? Come dite? Anche il sabato notte? Solo che lì lo chiamate “divertimento”? Ma come può essere. Eccomi preceduto, tallonato, sfiorato. Paura del lupo nessuna. Tanta paura di voi.

Ben presto ci arrivai, ad associare le mie seghette undicenni alle femmine, alle compagne di classe. Le scopavo di solito sul mio letto, sempre disteso al contrario con la testa dalla parte dei piedi, e della porta, per controllare che non facesse irruzione nessuno. Ma la stranezza era che invece di andare su e giù ancheggiavo da sinistra a destra e da destra a sinistra: mi ero fatto fregare dalla parola “scopare” (le parole ci fregano sempre), e credevo che la figa andasse ramazzata, spennellata via in superficie come un pavimento peloso con la scopa di saggina. Il che oltretutto spiegava come mai le donne rimanessero incinte così raramente, solo dopo numerosi e pazienti tentativi.

Certe sere leggevo per lei da un libriccino di haiku giapponesi, delicati lirici flash che invece che scritti sembravano dipinti con gli acquarelli sulla pagina bianca. C’era una bella immagine che ritornava spesso: “Aki no kure”. 
Veniva tradotta con “Crepuscolo d’autunno”. 
Ogni volta che leggevo dei versi che terminavano con aki no kure mi commuovevo, e lei mi guardava interrogativa.

Latte, müesli, cioccolato, formaggio dolce, marmellate, burro, succo di mela, mi sento svizzero anch’io, ho imparato a esserlo a Berna e in riva allo Zugersee, ero solo un bambino, porgevo noccioline agli scoiattoli e correvo al recinto del “bidióbidie” al Thier Park, mi venne spiegato che il bisonte non le voleva, le mie noccioline del cazzo, ma era lui, solo lui, il mio preferito. Adesso volevo essere uno scoiattolo.

Solo la libertà, contava. Più dell’ossigeno stesso. E il tutto, si capisce, in selvatica solitudo. La mia canzone-manifesto era Who can it be now?, incisa dagli australiani Men at work nei primi Ottanta, contrariata reazione al bussare alla porta che in valcuviese si tradurrebbe: E mò ki ghè scià?, e in italiano: Chi è che rompe il cazzo a quest’ora? 
Lo so, lo so, io sarò di quelli rinvenuti, già ben decomposti e assaggiati dal gatto affamato, una ventina di giorni dopo la morte, e solo a causa della puzza, e i cacanotizie mi appiccicheranno col naso tappato la risaputa etichetta: NUOVO DRAMMA DELLA SOLITUDINE. (Semmai il dramma della putrefazione, coglioni!)

Se la colonna sonora fosse stata a richiesta, più che alleluja avrei gradito come on baby, do the locomotion… Eravamo due vagoni molto ben agganciati, chi lo nega. Le mie mani sulle tettine tutt’altro che flosce mungevano e strizzavano capezzoli duri. Il mio membro nell’antica fregna ben lubrificata faceva sgnik sgnik sgnik, il mio corpo contro il suo corpo contro il suo lavandino faceva thumpf! thump! thud!, mentre il dentifricio diventava un pizzetto colante. 
Lei smise di lavarsi i denti.







domenica 14 luglio 2019

Paolo Zardi - LA GENTE NON ESISTE


«Io le dico che la separazione è tutto quello che sappiamo del cielo, e tutto quello che ci serve dell’inferno; non ricordo dove l’ho letta, questa cosa, ma sono convinto che fosse marzo. E mentre nel cielo passa il cerbiatto che ci guardava nel bosco, lento come una nave, bianco come una nuvola, io ti vedo tornare verso di me, dal mare, in controluce, come in una foto bruciata dalla luce che la colora».

Quando definisco Paolo Zardi un grande scrittore che ha sempre dato il suo meglio sulle distanze più brevi, non lo faccio per sminuire i suoi bellissimi romanzi, bensì per affermare, con decisione, che come autore di racconti Paolo si pone su livelli di assoluta eccellenza a livello mondiale. Un fuoriclasse. Un maestro del genere.
Ed è quindi con estrema gioia che ho accolto la notizia del ritorno di Zardi al racconto. Chi ha amato e apprezzato “Antropometria” e “Il giorno che diventammo umani” sarà felice quanto me per questo ritorno alle origini (anche editoriali: Paolo ritrova la Neo, la piccola e prestigiosa casa indipendente che negli anni ha avuto il merito di lanciare, oltre allo stesso Zardi, altri fior di scrittori come Gianni Tetti e Alessandro Turati). 

Non mi dilungherò sui singoli racconti, per non guastarvi il gusto della scoperta. Dico solo che quello d’apertura, “Ombrelloni” è un delizioso e divertente capolavoro. Che in “Tuca Tuca” l’autore è bravissimo a mostrarci il punto di vista della squallida inferiorità mentale dei conformisti omofobi (e di quei genitori, che sono poi la maggioranza, che considerano i figli come emanazioni/proprietà, su cui far valere gravose pretese tipo quella di diventare nonni) dando loro voce e pensiero senza giudicarli apertamente, ché bisogno, in fondo, non ce n’è. Che “Controluce” è caldo, emozionante e perfetto come una poesia incisa sopra un quadro assolato di Van Gogh poco prima che la pittura si asciugasse. Che “Urano” è semplicemente sontuoso. E che fra tutti gli altri non si riuscirebbe a trovarne uno brutto o insignificante neanche a volerlo.

«Come il piccolo e instancabile tosaerba, aveva fatto il proprio dovere e ora era il momento di ricaricare le batterie. In fondo, le loro vite non erano così diverse: condividevano desideri semplici, qualche talento specifico applicato con pazienza, una certa attenzione nell’evitare i pericoli; e chissà se anche quella scatoletta, la sera, rimuginava sulla giornata trascorsa, se ricordava qualcosa del verde dell’erba, del suo odore, del batticuore di fronte a un ostacolo, del sole che aveva attraversato il cielo da parte a parte; chissà se aveva piccoli rimpianti, qualche ferita, e ricordi dolci che venivano a cullarlo nel cuore della notte. Ecco, avrebbe potuto scrivere un racconto di fantascienza su quel robottino. Sui suoi sogni. Sulla sua paura della morte e sulla tenacia con la quale vi si opponeva».

Paolo Zardi
Grazia, intelligenza, lirismo, empatia, una cura minuziosa dei dettagli, curiosità per le persone e per le cose del mondo, pietà ma non troppa, cinismo ma non troppo, capacità di sorprendere e stupire senza bisogno di ricorrere a sensazionalismi grossolani, l’orecchio attento di chi sa guardare e lo sguardo penetrante di chi sa ascoltare: nella scrittura di Zardi c’è tutto ciò che deve esserci per deliziare un lettore esigente, annoiato dalle illeggibili minchiate a nastro di quasi tutta la nostra sconcertante editoria, che da decenni ansima come un motore ingolfato dai miasmi pestilenziali da essa stessa prodotti. 

La gente non esiste, dice l’autore. Gli Scrittori, anche se pochi e in via d’estinzione, invece sì, vi dico io.
Non perdetevi per niente al mondo questa nuova, e rara, prelibatezza, questo confetto dai mille sapori. 
Non fatemi incazzare.
Parola di Scriba.

«Tutti, però, coloravano le notizie con una voce adeguata: una fermezza istituzionale per le tragedie, una sottile euforia per la moda e i fatti stravaganti, e una grigia rassegnazione per i numeri dell’economia. A volte pensava che il tono fosse una proprietà intrinseca delle parole, una qualità innata che gli speaker dovevano limitarsi ad assecondare».