"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

giovedì 23 dicembre 2010

Per un sereno Solstizio d'Inverno, o qualsiasi altra cosa significhi per voi e per il vostro cuore. E per un felice 2011.




RACCONTO DI NATALE (1990)



Sin da piccolissimo fui sensibile al fascino della relatività del tempo.
Anzi, a essere preciso, ben prima di sapere dell’esistenza di tale concetto e di saperlo nominare, già vivevo attanagliato dall’istintiva e indicibile paura che voragini da film di fantascienza-horror potessero scatenarsi a folate improvvise, con repentine fratture millenarie riguardanti stanze dello stesso palazzo e vite dei loro occupanti, separando per sempre i bambini dall’affetto delle madri, o dal senso di sicurezza e calda protezione che potevano infondere parenti e visi conosciuti.

Durante il pranzo di Natale, per il quale era consolidata tradizione di famiglia riunirci nella magione della nonna paterna, avveniva quasi sempre ch’io mi assentassi qualche minuto per scendere a casa mia, che distava poche decine di metri, a prendere qualche nuovo gioco, ricevuto in regalo quello stesso magico mattino.

Al ritorno, cominciando a salire le due rampe di scale oscure della grande, antica casa della capostipite, una terrificante immagine mi raggelava, andandosi a conficcare tra le pareti del mio cervello. Temevo di salire quei gradini, di aprire quella porta, e poi la seconda porta, e di trovare una stanza piena di scheletri. Soltanto scheletri – tanti orridi, spaventosi, ghignanti, bianchissimi scheletri quanti erano i miei cari che avevo lasciato poco prima, immersi nell’intimo tepore di una festa felice. Mentre per me non erano trascorsi che pochi minuti, per loro erano passati come minimo cent’anni!
E tremavo al solo pensiero del grido orrorifico e inumano che si sarebbe levato dalla mia gola e dal mio disperato raccapriccio.

Anche adesso che ho quattordicianni e sono un ometto, o almeno così dice la nonna, salendo gli ultimi gradini non posso evitare di pensare a quell’assurda fantasia che mi perseguitava da bambino. Oggi più che mai. Sarà il gelido sussurro degli spifferi, saranno queste ombre arabescate, saranno gli strambi oggetti scultorei che popolano, ogni anno più numerosi, la tetra anticamera fra il primo e il secondo ingresso, fatto sta che oggi esito più a lungo del solito davanti alla porta chiusa, quasi gemendo nel buio, divorato da improvviso sgomento, uno sgomento che non mi pare più semplice fantasia, ma vera e propria premonizione avvertita e sofferta coi pori della pelle, e coi muscoli e lo stomaco e le profondità di tutto il corpo.

Apro la porta, pietrificato da questi pensieri… (Se sapessero, chissà le risate che si farebbero alle mie spalle.)
Ma no, eccoli tutti lì, naturalmente, eccoli tutti lì come li avevo lasciati. I miei genitori e mio fratello, e lo zio che sta riaccendendo il suo sigaro, le zie, la nonna, nella luce dei candelabri ardenti e del fuoco nel camino, davanti a loro le tazzine da caffè e le bottiglie di amari e grappe, ciò resta del pandoro e la frutta secca nelle ceste e i mandaranci.
Ma perché, perché adesso mi guardano inorriditi, perché sono loro a lanciare, uno a uno, dopo avermi veduto ritto sulla soglia, quelle acute grida di terrore?


BUONE FESTE !!!!


lunedì 20 dicembre 2010

SQHUOLASTRISSIE - terza degustazione!


















Stavolta, sperando di farvi piacere, vi ho servito una degustazione DOPPIA, come piccolo regalo per le festività invernali. Ricordo a chi fosse in difficoltà a causa del formato di questa versione foto-casereccia, che cliccandoci sopra si ingrandiscono. Se vi siete persi le altre due puntate di questi miei reperti liceali (dove ci sono molte delle "strissie" che considero migliori) potrete trovarle nell'archivio 2010 aprendo i mesi di Aprile e Giugno.





martedì 14 dicembre 2010

UN BACIO: il piccolo struggente capolavoro di Ivan Cotroneo



Ivan Cotroneo
UN BACIO
Bompiani, pagg 91 € 9,50
voto: 9+

Oggi voglio parlarvi di un libriccino prezioso, struggente, magnifico, davvero imperdibile. Già: perché una volta tanto, nel deprimente panorama italico, posso finalmente usare la parola libriccino nel senso delle dimensioni (si legge in un soffio, ma è un soffio al cuore capace di rimescolarti dentro), e non la parola libercolo nel senso del contenuto. Perché ogni tanto anche nel nostro letamaio odierno spuntano dei fiori. E che fiori.
Questa piccola rosa nera regalataci da Ivan s’ispira liberamente a un fatto di cronaca: l’uccisione con un colpo di pistola di un liceale americano, il quindicenne Larry King, per mano di un compagno quattordicenne che la vittima aveva solo osato corteggiare.
L’autore riadatta la tragedia alla provincia italiana, e lo fa nel miglior modo possibile, attraverso tre punti di vista, una staffetta di tre voci al tempo stesso sussurrate e sconvolgenti, come urla del silenzio capaci di trattenersi sotto le righe nel loro dire “ascoltateci”, senza per questo colpirci di meno o commuoverci di meno. Anzi, semmai, pugnalandoci al petto ancora di più. Tutte e tre.
C’è la voce delicatamente disperata di Lorenzo, la vittima, il ragazzino Diverso, Lorenzo tenero, spaesato e maltrattato (ma anche protetto, purtroppo non abbastanza, da due splendidi genitori adottivi e da un’insegnante d’italiano “illuminata”, contrapposta a un prof d’inglese scimmiesco e idiota capace solo di sbatterlo in presidenza per l’abbigliamento o per le unghie colorate). Lorenzo preso in giro e picchiato, Lorenzo isolato, Lorenzo che si ritrova foglietti odiosi attaccati allo zaino, Lorenzo che fa fatica a trovare il coraggio di regalare la felpa che ha comprato per Natale al compagno che gli piace perché “aveva il sorriso”, anche se a lui non sorride mai, Lorenzo che riuscirà a dargli un piccolo, unico bacio, un bacio nel buio e senza testimoni, ma che finirà lo stesso per costargli la vita.
E poi la voce di Elena, l’insegnante illuminata, che forse è illuminata proprio perché nasconde a sua volta un segreto simile, l’amore impossibile e indicibile per un’ex allieva, una ragazza così imbarazzata al solo intuire, al solo sospettare, ciò che anima la professoressa, da barricarsi per difesa contro di lei nell’abbrutente fogna convenzionale d’un matrimonio-maternità precoce, infelice e annichilente in cui è andata a seppellirsi troppo presto: un marito stronzo e violento è sempre meglio che sospettarsi lesbica.
E infine Antonio, il carnefice a sua volta vittima, vittima dei gretti pregiudizi e della violenta ignoranza chiamata omofobia, tragica imbecillità che ovunque nel mondo dilaga, ma che nella lobotomizzata Vatikalia, non dimentichiamolo, è veicolata addirittura da peti (coi tacchi) istituzionali e da qualche raglio pontificio; Antonio emotivamente violentato, sabotato e bacato dalla bestialità del padre e dal bieco conformismo che lo circonda, Antonio che non potrà perdonare il turbamento di aver involontariamente visualizzato gli occhi di Lorenzo in un flash di autoerotismo, che non potrà perdonargli il regalo e la dichiarazione gridata al campo sportivo, che non potrà perdonargli quel bacio (“Ho pensato che forse già lo sapevano tutti quanti. Forse adesso non potevo più giocare a pallone”), perché il mondo di merda in cui vive, e dal quale mendica accettazione e approvazione, non glielo permetterebbe mai (perché ricordiamoci che è quasi sempre questo il meccanismo psicologico dell’omofobia: il terrore di poter essere anche noi qualcosa che il gregge-melma condannerebbe).
Una volta tanto, buone notizie narrative anche dalla grande editoria italiana (non immaginate quanto sia felice di poterlo dire, visto che quando ne parlo male rischio di passare per rincoglionito e invidioso), una volta tanto il parlato, il pensato di due ragazzini reso in modo magistrale, verosimile ma non stupido, non da pupazzo o da figurina bidimensionale, e senza concessioni a gerghi stucchevoli o banalità mocciane, insomma reso, come amo spesso dire, da uno Scrittore e non da un magnetofono.
“Se non riusciamo a fare delle nostre vite” ammoniva Raimon Panikkar, “un delicato capolavoro, allora c’è qualcosa che non va”.
Ecco, quello di Ivan Cotroneo è proprio questo: un delicato capolavoro, a metà fra la poesia e il manufatto di orologeria-gioielleria: non una parola di troppo, non una virgola fuori posto! E quindi merita di essere letto. Sarebbe un peccato perderselo. Ma sarebbe soprattutto un peccato non farlo leggere ai vostri amici e parenti più giovani.
Parola di Scriba.


venerdì 10 dicembre 2010

RACCOLTA DIFFERENZIATA (17) - vecchi racconti inediti del Nick



DISPONI


“Non sparire”.
(Evtusenko, Poesie d’amore)



E così lei sarà la tua prima volta cash, e forse avrà deciso lei quando venirti incontro, anche se tu, questo, non lo saprai mai.
Finalmente con un trucco o una scusa, o perché gli altri saranno andati a letto troppo presto, finalmente riuscirai a restare solo, dopo la solita serata fumosa e funesta dentro quei pub di riviera che sai a memoria, quasi quanto i discorsi a nastro degli amici che vanno e rivanno, che rassegnato ascolti da anni bevendo la tua Guinnes, ma non vi contribuisci neanche più. Finalmente solo, sulla tua scheggia nera metallizzata, stavolta non te ne andrai a dormire, come un bravo bambino, coi genitori alla casa per vacanzieri in affitto, ma darai inizio, senza averlo veramente deciso, trasportato da un istinto, una disperazione o un solletico, alla tua notte raminga lungo la via Emilia, alla tua caccia solitaria e vagabonda a spiare le prostitute nelle piazzole e nei parcheggi deserti e ai rondò, quegli stessi corpi umani nel buio che erano stati solo sottofondo muto e inanimato e sfiorato durante decine di altre notti al mare, quelle stesse ragazze che andavi a sbirciare per scherzo quando facevate i puttan tour, (la volta che l’impareggiabile M., seduto alla tua destra, riuscì a rimanere serio nel replicare a una racchia che aveva appena detto “Zinquenta di bocca e di tutto”: “Le faremo sapere, signorina”) e adesso spererai siano davvero andati tutti a letto gli amici, perché questo adesso sarai tu, maschio in caccia più emozionato che eccitato, e il batticuore salirà forte, e sarai ora tu, proprio tu, uno di quelli che rallentano di continuo e intralciano il traffico, il traffico degli uomini veri che le ragazze se le vanno a cercare laggiù dove i fari allo iodio delle discoteche s’innalzano dritti nella pianura e li chiamano, come le sirene delle fabbriche chiamano gli operai al lavhorror, e forse tenteranno ancora una volta inutilmente di chiamare anche te, quei loro mazzi di coni di luce che oscillano e s’intrecciano alti nel cielo nero allarmando la notte dei normali. Questo adesso sarai tu, e ti sentirai già in colpa, e non vorrai essere sorpreso con la tua pochezza in flagrante da nessuno che conosci.
Tu e la tua scheggia nera metallizzata, e i tuoi desideri e le tue ansie e paure, in questo scenario silenzioso e disteso, entrerete e uscirete di continuo da mille quadri oscuri che non saprai, che con le loro crude sfumature ti metteranno di fronte al tuo inquieto non saper vivere.
Ma stavolta sarai deciso, e tutti i muscoli e il sangue del corpo lo saranno più di te, t’impediranno di ripensarci, non ti permetteranno, stavolta, di essere timido e di avere paura, al punto che quando avrai deciso di arrenderti, di rinunciare, e sarai di nuovo diretto da bravo bambino verso la casa per vacanzieri in affitto, la tua scheggia nera metallizzata compirà un’inversione perigliosa e stridente da telefilm poliziesco, e neanche tu saprai, in quel momento, chi diavolo ci sarà mai stato, al volante.
Risoluto a andare fino in fondo, tornerai all’incrocio dopo il Luna Park dove avevi intravisto la selvatica in costume di leopardo. Ma lei non sarà più lì. Risbucherai allora sulla via Emilia, allo svincolo in cui avevi adocchiato la stangona bionda e la mora. Ci saranno ancora, rallenterai, ma da vicino saranno due cozze inguardabili, due sculture di Modigliani dalla faccia oblunga e angosciante. Scivolerai via.
Continuerai a vagare e a cercare. Con solo il tuo mangianastri a tenerti compagnia nella sua remota fosforescenza verde di sogno rarefatto.

Datemi datemi, dirai, pregherai, strade buie e selvagge di questa notte di Romagna, datemi vi prego, allora invocherai, una prostituta con la faccia da troia! Basta, invocherai, con queste disgraziate che ti fan sentire in colpa soltanto a vederle, queste facce buone tristi e miti e rassegnate da misere schiave, datemi una porca troia vera, come di certo ce ne sono, o almeno datemi mie buone strade tentatrici e complici, vi prego datemi una ragazza carina, non queste racchione dell’est con le facce scolpite dal maestro Modigliani!

A lungo ne cercherai una carina, o almeno una con la faccia da troia. Mica facile. Con la faccia da troia come certe che in città intercetti arroganti sulle loro camionette da cento milioni, intestate alla ditta del marito posizionato, che te le inculeresti per sfregio – la vera troia è quella che sa sposarsi bene. Come certe vigilesse, che ti castigano frementi di sadismo perché te ne andavi a cinquantotto all’ora.
Ma con la faccia da troia non ne troverai nessuna, di puttana.
In compenso, nel cuore della notte e alla fine della Romagna, poco prima di arrenderti, ne scorgerai una bellissima, ma carina da impazzire, così carina da non sembrare vera, carina come fosse stata messa lì per sbaglio o per scherzo, così carina da aver paura che spunti un altro, magari in Ferrari, e te la rubi.
Poserai lo sguardo sui suoi occhi al rondò, sarà la più bella che tu abbia mai visto, un misto di mulatta cubana e di nera nigeriana, e nel frattempo la tua compilation, dispettosa, sarà giunta proprio all’unica canzone lenta e dolcissima delle diciotto che ci saranno, e in quell’atmosfera d’incanto irreale abbasserai il finestrino, e pieno di tenerezza e goffaggine le chiederai nella notte: «Ti va di farmi compagnia?»
Lei esiterà, disorientata da quell’invito mellifluo enigmatico al posto del solito: “Quanto?”
Poi, il “quanto” naturalmente ci sarà, e lei dirà cinquantamila.
Aprirai la portiera di destra, e quell’angelo col volto da copertina che non dovrebbe stare lì salirà, mentre sfumerà nella fosforescenza la canzone lenta e dolcissima, rimpiazzata da Ma Baker dei Boney M.

Ti guiderà fra viuzze infrattate, dicendo più volte “destra” “sinistra” come un navigatore preciso e incalzante, masticando la sua gomma e muovendosi al ritmo della musica e canticchiando Ma Baker come non fosse una canzone dei tempi di sua nonna, e lei ti farà delle domande, come se gl’importasse di te, e invece sarà solo un modo, ripenserai dopo, per farti parlare, capire se sei fatto o ubriaco o non ci stai con la testa, e tu non saprai proprio perché, ma risponderai col tuo vero nome, vera età, vera provenienza, vero tutto. Le chiederai il suo, di nome, e lei te ne dirà uno abbastanza deludente: «Jessica.» Ti consolerai pensando che di sicuro è inventato, un angelo simile non può chiamarsi semplicemente Jessica.
Tu, con a bordo una puttana. Le sue gambe di carne seducente a pochi centimetri da te. Non ti sembrerà del tutto vero. Non ti sembrerà una cosa possibile.

A un certo punto lei farà un cenno a qualcuno, a un incrocio, passando, come un segnale. Una collega, o una vedetta. Qualcosa ti dirà che ti hanno preso la targa. Giusto così, penserai, ci sono troppi violenti e maniaci di merda, in giro nella notte selvaggia, e se io ferissi anche solo con un’unghia questa fata che mi è apparsa nella notte, penserai, meriterei di venire squartato, e gettato in una fogna.
A metà di una stradina di campagna, ti farà cenno di fermare. Ti dirà di spegnere le luci. Anche lo stereo? Anche lo stereo. Sentirai di dover farfugliare che è la prima volta che lo fai così, che sei triste e confuso, che poi sarà la vera verità, che tu sappia. «I soldi», ti dirà. Tu le metterai in mano il cinquantone. Lei con mossa svelta ribalterà il suo sedile. Tu, più che altro per imitazione, farai lo stesso col tuo, ma per il momento resterete seduti a guardarvi, come due ragazzini impacciati che non lo hanno fatto mai.
Poi: «Disponi», ti dirà Jessica.
E tu: «Ti aiuto», le sussurrerai, e le abbasserai piano una spallina, e lei ti sorriderà, e per qualcosa di più lungo di un secondo l’intimità si farà dolce, e ti dimenticherai di tutto, ci sarà solo il profumo buono della sua pelle, e ti sembrerà di stare lì appartato con la tua ragazza, con l’amore bello e vero della tua vita. Ricorderai di aver letto da qualche parte che non sempre ci si avvicina alla tenerezza unendosi all’altro – spesso la tenerezza è lo spazio che ci divide. Vicinissimo a lei, le leccherai appena la spalla e poi il collo. Poi farai per baciarle un capezzolo, e lei ti respingerà.
Quasi infastidita ripeterà, meccanicamente, quel suo “Disponi”, e allora comincerai a sospettare che non significhi disponi di me come tu vuoi, fai tutto quello che ti pare del mio corpo e della mia pelle, comincerai a sospettare che “Disponi” voglia dire soltanto e più semplicemente: “Tiralo fuori. E sbrigati.”
Tu, disperato, le dirai che vuoi qualcosa di dolce, che da lei vuoi baci e carezze, non sarebbe stato così, penserai, se avesse avuto la faccia da troia, ma lei è così bella e adorabile… Lei ti spiegherà che con cinquanta si paga un trattamento veloce, tu balbetterai che ne hai solo altri dieci, e per lei sarà come aver detto che hai mezzo centesimo.
Avrai un’idea. La esporrai goffamente. Facciamo così, le dirai, un po’ di baci e di coccole, e poi, soltanto di bocca. Va bene?
«Okay» dirà Jessica, spegnendosi in una smorfia, come a dire, quasi delusa, come tu vuoi. Se ti accontenti di così poco… Ma non avrà capito nulla, o nulla fingerà d’aver capito, perché di nuovo, subito, rimettendosi a posto la spallina, con freddezza intimerà: «Disponi.»
Allora, tu, disporrai.
E disponendolo ti dirai, porco diavolo, a queste qui va bene tutto tutto, ma le perversioni sentimentali, cocco mio, quelle, no. Le carezze, quelle te le devi scordare.
Poi lei si darà da fare, ma un preservativo e due fazzoletti di carta renderanno la cosa ancor più deludente, squallida, grottesca, irreale. Nonostante questo ti abbandonerai, le carezzerai la nuca e la schiena, starai in silenzio sino al momento di due “sì” a malapena sussurrati e già tristi.
Nel rimetterti a posto, considererai la sua umiliazione, grande quasi quanto la tua, e le dirai Adesso mi dispiace, di avertelo fatto fare. E lei sarà sempre più perplessa per l’idiota che sei. Sbatterà fuori lo schifo nel viottolo privato, regalo per chi abita lì, tu riaccenderai lo stereo, lei ricomincerà a canticchiare Ma Baker come non fosse una canzone dei tempi di sua nonna.
Al rondò non la farai scendere subito, le chiederai un bacio, a Jessica, che dichiara venticinque anni e forse ne ha sedici, che incredibilmente nel buio non avrai neanche deciso se mulatta cubana o bambina nigeriana, saprai solo che ti sei innamorato di lei e dell’impossibilità di amarla e di esserne amato. Vi sfiorerete una guancia in un bacio non dato del tutto, le dirai addio, e buona fortuna. Che idiota: buona fortuna.
T’immetterai sulla via Emilia con la tua scheggia nera metallizzata, sotto gli sguardi di tante sue compagne che l’aspettavano in gruppo, al buio, di là della strada, come se loro avessero finito, e Jessica, l’avessi avuta fuori orario. Ti lascerai alle spalle il rondò e quell’angelo scuro. Ti sentirai una specie di verme. Ma non un verme moralista. Ti spiacerà di non averla potuta amare di più, e se amarla di più era avere un milione e pagarla per tutta la notte, per poi magari portarla al cinema, o in riva al mare, o in qualche osteria sulle colline a bere sangiovese, ti spiacerà di non aver avuto il milione, e però lo sai benissimo che in quel caso ti saresti sentito ancora più verme, non un verme moralista, no, ti sarebbe spiaciuto di non avere un miliardo, per chiederle di fuggire, e venire a vivere con te.
Non dimenticherai mai quanto t’è piaciuto il suo viso nel posare lo sguardo nei suoi occhi al rondò, non dimenticherai mai che in quel momento la compilation dispettosa era giunta proprio all’unica canzone lenta e dolcissima delle diciotto che c’erano, e che quella più realistica, Ma Baker, che parla di una negra disperata che si dà alle rapine, era partita solo dopo.
Forse, “disponi” non era la prima cosa che avevi capito, ma neanche la seconda.
“Disponi” era disponi al meglio della tua vita come credi, seguendo solo la tua anima e il tuo cuore, e rispondendo alle cose che ti chiamano nel momento in cui ti chiamano.
Forse non c’era bisogno, di avere addirittura un miliardo.
Ti ci vorrà un anno, per capirlo.
L’estate dopo, ritornerai otto volte alla stessa ora alla stessa rotonda. Poi altre volte a ore diverse. Altre volte disperato a ore varie in altri posti lì attorno e poi sempre più lontano a cercarla disperato.
Lei non sarà più lì.


mercoledì 8 dicembre 2010

Poesie del poeta pentito (2)

A grande richiesta, un nuovo miniassaggio dei miei versi giovanili.



COLLAGE-VOYAGE


AUF-ZU
Tutùcciuciùf
Dà fastidio se fumo?
OPEN-CLOSED
"Ti voglio bene ma non ti posso amare"
E' PERICOLOSO SPORGERSI
Biglietti, prego
Hey papà, si vede il mare
OUVERT-FERME'
"Nick è solo"
Mio dolce
Impossibile
Amore
(APERTO-CHIUSO)
Lo capisci
Che questo
E' un addio?
NE TIRER LA POIGNEE
QU'EN CAS DE DANGER





ALBA D'ASFALTO
(Surrendermerde)


In mezzo a prati falciati di fresco
Sorseggia un caffè il Generale Cambronne

Fra papaveri e sogni e rugiada il dio Thor
Ripercuote il suo amore mai stanco

Scandinavian Container
Nei pressi di me





NONSTOP JULY


Camminerò
Fra sentieri infiniti di stelle
Come musica in spiaggia d'estate
Nella sabbia c'è l'eco del calciomercato
Nelle onde un inverno che ho già dimenticato
Mai più freddo né angoscia né pianto
Ma quando? Ma quando? Ma quando?


domenica 5 dicembre 2010

I marinai si sono impadroniti della nave, e ballano coi topi in attesa di affondare




Charles Bukowski
IL CAPITANO È FUORI A PRANZO
Universale Economica Feltrinelli
Pagg 138 € 6.50
Voto: 8

Pag 7
Ottima giornata alle corse, maledettamente vicino a fare il colpaccio.
Eppure, anche quando si vince, è noioso. Quei trenta minuti di attesa fra una corsa e l’altra, la vita ti sgocciola via nello spazio. Tutti sembrano grigi, calpestati. E io sto lì con loro. Ma dove altro potrei andare? In un museo d’arte? Dovrei starmene in casa tutto il giorno a fare lo scrittore? Potrei mettermi una sciarpetta. Mi ricordo quel poeta, che nei suoi vagabondaggi passava sempre da queste parti. Camicia senza bottoni, vomito sui pantaloni, capelli negli occhi, stringhe slacciate, però aveva quella lunga sciarpa sempre pulitissima. Era quello il segnale dell’essere un poeta. Le sue opere? Be’, lasciamo perdere…

Pag 13
La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte. Non fanno onore alla propria vita, la pisciano via. La cagano fuori. Muti idioti. Troppo presi a scopare, film, soldi, famiglia, scopare. Hanno la testa piena di ovatta. Mandano giù Dio senza pensare, mandano giù la patria senza pensare. Dopo un po’ dimenticano anche come si fa a pensare, lasciano che siano gli altri a pensare per loro. (…) Per molti la morte è una formalità. C’è rimasto ben poco che possa morire.

Pag 26
Non c’è niente che possa impedire a un uomo di scrivere, tranne se stesso. Se uno desidera scrivere, lo farà. I rifiuti e il ridicolo serviranno solo a rafforzarlo. E più lo ostacolano, più forte diventa, come una massa d’acqua che preme contro una diga. Scrivendo non si perde mai; ti fa ridere le dita dei piedi mentre dormi, ti fa muovere come una tigre, ti accende l’occhio e ti mette faccia a faccia con la Morte. Morirai guerriero, sarai onorato all’inferno. Fortuna della parola. Vai, lanciala. Sii il Buffone delle Tenebre. È divertente. È divertente. Un’altra riga ancora…

Pag 47
Indubbiamente alle corse c’è gente strana. C’è un tipo che sta lì quasi tutti i giorni. Si direbbe che non vinca mai. Dopo ogni corsa urla sgomento contro il cavallo che ha vinto. “PEZZO DI MERDA!” Dopo di che va avanti a sbraitare che quel cavallo non avrebbe mai dovuto vincere. Per cinque minuti buoni. (…) E non fatelo perdere al fotofinish. Allora sì che se la prende. “ALLA FACCIA DI CAZZO DI DIO!”

Pag 135
Perché le persone interessanti sono così poche? Con tanti milioni, perché sono così poche? Dobbiamo continuare a vivere con questa specie noiosa e monotona? Sembra che il loro unico gesto sia la Violenza. In quello sono bravissimi. Brillano. Luccicore di merda, che ci ammorba ogni possibilità. Il problema è che devo continuare a interagire con loro. Almeno se voglio che le luci continuino ad accendersi, che mi riparino il computer, se voglio tirare lo scarico del cesso, se devo comprare le gomme nuove, farmi togliere un dente o farmi tagliare la pancia, devo continuare a interagire. Ho bisogno di quegli stronzi per le piccole necessità, anche se loro, in sé, mi fanno inorridire. E inorridire è una parola gentile.

Pag 137
Be’, sì. Come scrittore faccio fatica a leggere quello che scrivono gli altri. Semplicemente non fa per me. Tanto per incominciare non sanno buttare giù una riga, un paragrafo. Basta guardare la pagina da lontano, ha un aspetto noioso. Quando poi la prendi in mano, è peggio che noiosa. Non c’è ritmo. Non c’è niente di nuovo o di fresco. Non c’è gioco, non c’è fuoco, non c’è sugo. Che cosa fanno? Sembra un lavoraccio. Chiaro che poi molti scrittori dicano che scrivere per loro è una sofferenza. Lo comprendo.
A volte, quando la scrittura non carbura, ho provato qualcosa di diverso. Ho versato il vino sulle pagine, le ho avvicinate a un fiammifero e ci ho fatto dei buchi. “Che cosa stai FACENDO lì dentro? Sento puzza di fumo!”
“No, tesoro, tutto bene, tutto bene…”
Una volta ha preso fuoco il cestino e sono corso fuori sul balcone, ci ho versato sopra della birra.

Pag 138
Mi ricordo che un giorno ricevetti una lettera furibonda da un tale il quale sosteneva che non avevo diritto di dire che Shakespeare non mi piace. Troppi giovani mi avrebbero creduto senza nemmeno darsi la pena di leggere Shakespeare. Non avevo diritto di affermare una cosa simile. E così via. Non gli ho mai risposto. Lo faccio adesso.
Fottiti, amico. E non mi piace nemmeno Tolstoj!


Be’, se proprio per Natale non volete regalare Tutta colpa di Tondelli dello Zio Nick (:D), perché magari tutti i vostri amici lo hanno già letto, allora vi consiglio questo prezioso libriccino dello Zio Buk, molto diverso dagli altri suoi: è un diario degli ultimi mesi, una sorta di Testamento di uno dei più grandiosi outsider della Scrittura. Fossi in voi lo leggerei.
Parola di Scriba.