"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

domenica 2 agosto 2020

Il 2 agosto 1980 nel romanzo IRRENHAUS (quinto capitolo e parte iniziale del sesto)



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2 Agosto 1980

 
Quel giorno era ben soleggiato, la temperatura fresca e piacevole, così decidemmo di pranzare sul terrazzo, all’ombra del solitario ippocastano che prendeva slancio dallo spiazzo d’asfalto davanti all’atelier di Martina per gareggiare in altezza coi due piani più mansarda, vincendo di parecchie spanne. Sembrava illudersi di essere una sequoia, però più frondosa, e il suo fogliame era una perturbazione placida e benigna di nuvole verdescuro.
Quel giorno era un giorno come un altro, e di sicuro non ci sarebbe stato motivo di mandare a memoria una così insignificante data.
2 Agosto 1980: al massimo avrei potuto ricordarlo come il quarto giorno della mia prima vacanza elvetica, o come quello successivo alla mia prima festa nazionale degli svizzeri.
Il cugino Bernardo era stato lì lì per mettere in cantiere una grigliata di carni miste e salsicciotti, ma poi s’era deciso di rimandare e star leggeri, per via dei postumi della serata da Schnapsy.
Ripiegammo su una raclette: formaggio fuso con patate lesse, cetriolini, cipolle e altri contorni a volontà. Non poi così leggero, a essere sinceri.

Gli uccelli cinguettavano melodie d’amore, e avevamo acceso anche la radio, sintonizzata su un canale che trasmetteva musica sinfonica intervallata da notiziari flash. Niente pubblicità a guastare i maroni.
Gustando la mia raclette e bevendo il mio sidro, e pregustando una doppia razione di gelato, il caffè con panna, e una partita a qualche nuovo gioco, mi stavo rendendo conto di come questo così semplice momento della mia vita fosse vicino alla perfezione. Mi sentivo felice. Masticavo e sorridevo, il sorriso così scolpito, così fisso, da sembrare fesso, da sembrare un ebete congenito.
A furia di sorridere, sentivo male alle mandibole.
Ma poi, portato dalle onde radio, irruppe un notiziario strano, in orario non previsto, interrompendo brutalmente Chopin.
Pochi istanti, e vidi il cugino Bernardo sbiancare, vidi Martina Weckerli smettere di masticare e posare la forchetta, li vidi scrutarsi negli occhi, poi me poi ancora fra loro, con facce a lutto che parevano chiedersi e adesso chi glielo dice – sarà il caso di dirglielo?
La verità è che avevo già intuito tutto quello che c’era da intuire, perché nel mezzo degli “skrùmpfete” e “shtrònfete” e “shdrànfete” dell’ostica lingua germanica (a loro volta più concitati del solito) mi erano giunte all’orecchio due parole fin troppo comprensibili, entrambe ripetute più volte.
La parola “Bologna”.
E la parola “Explosionen”.
A quanto pareva, era saltata per aria la sala d’aspetto della stazione di Bologna. C’erano decine di morti. Una strage assurda, provocata da infami. E l’esplosione era stata così violenta, così micidiale, da mandare in mille pezzi un treno in transito su un binario vicino, allargando la carneficina ai suoi passeggeri.
In contemporanea con l’interruzione della musica e col notiziario, Damien s’era svegliato nella sua culletta portatile e s’era messo a piangere come un disperato, lui che non piangeva mai, come se avesse avuto cognizione di cos’era successo.

Come sempre accade con la cecità vigliacca dei bombaroli (gente che non andrebbe messa in carcere, ma fatta brillare analmente nei poligoni militari), non era stato colpito un consesso di potenti prepotenti. Era stata colpita una stazione zeppa di poveri cristi che andavano al Mare in treno invece che in macchina. Non potei evitare di pensare che sui vagoni ridotti a scatole di tonno bruciate di quel treno in transito avremmo potuto benissimo esserci io e la mamma, in un poco diverso e non certo impossibile destino che avesse semplicemente previsto, al posto dell’invito di Martina Weckerli, pochi soldi in più nel borsellino materno, e la scoperta dell’offerta speciale di una pensione economica a Rimini o a Riccione. Anche se poi, più avanti, avrei saputo che il convoglio distrutto procedeva in direzione opposta, ed era un treno con destinazione Svizzera: il diretto Ancona-Chiasso.
Il gelo e lo sgomento furono totali, ma sarei reticente e disonesto se non dicessi che passarono in fretta. Sembrava una cosa così lontana, così remota, pur in tutta la sua incredibile atrocità, ad ascoltarla da lì… In fondo, erano le inevitabili notizie di sciagure puntualmente in arrivo da paesi dimenticati, disgraziati, maledetti, sottosviluppati, facili prede di bastardi, di fascisti, di sciacalli, eterni teatri di massacri o cataclismi: Italia, Somalia, Cile, Bangladesh… che differenza faceva, lì sulle rive del paradisiaco Zugersee, non fosse stato per il sangue italiano che bene o male, volenti o nolenti, avevamo tutti nelle nostre vene, io (purtroppo) più di loro?
Nel mio triangolino di Nord Italia, il confine svizzero non stava solo sopra, ma te lo ritrovavi anche di fianco, a oriente e a occidente.
Se i confini li facessero dritti, mi dicevo certe volte, sarei nato svizzero italiano!
La Svizzera mi faceva sentire così lontano, e così al sicuro, che mi trovai a pensare con stupido, egoistico sollievo al fatto che la mamma, due settimane dopo, sarebbe venuta a prendermi a Lugano, e non su suolo italico. Perché in Svizzera le stazioni non saltavano per aria, e i treni neppure. E io per fortuna in quel momento mi trovavo a Zug, il più sicuro dei treni. Ma soprattutto mi trovai a sperare che quelle due settimane nella città che si chiamava Treno si dilatassero magicamente e durassero almeno una ventina d’anni. Pensieri leciti ma al tempo stesso disgustosi, per i quali probabilmente gli Dèi o chi per essi si apprestavano a processarmi e a punirmi. Per direttissima.
Tornammo alle nostre cose lentamente, ma ci tornammo.
Il sole, l’ippocastano, gli uccellini, la raclette, la vista sui bei palazzi di Zug, il ritorno della radio alla musica sinfonica (adesso era Gershwin)… tutto era lì per rassicurarci, per coccolarci, anche se quella musica, adesso, sapeva inevitabilmente di nenia funebre. I nostri occhi vedevano, le nostre vie respiratorie respiravano, le nostre papille gustative gustavano. Eravamo ancora abbastanza vivi, per quanto sconvolti, e piaccia o non piaccia dirlo o sentirlo dire era bello trovarsi nella Confederazione Elvetica, un posto dove perfino i fuochi artificiali erano sussurro lieve, decorazione silenziata, deflagrazione innocua da salotto, carezza colorata per l’anima, supernova per bellezza senza danni collaterali.
E ci fu il gelato. E ci fu il caffè con panna. Ci fu il ritorno, quasi per autodifesa, alle nostre più rassicuranti sciocchezze.
«Corradino» disse Dora: «“Kukicashli”».
Uffa. Non ci caddi e rilanciai: «Trentatré trentini entrarono a Trento tutti e trentatré trotterellando».
«Wie
«Trentatré trentini entrarono a Trento tutti e trentatré trotterellando», ripetei in tono di sfida.
«Trentattré trentri…»
«Nein!»
Tiè.

Sarei tornato a pensarci solo a tarda sera, nel mio giaciglio, il libro di Gianni Rodari ancora aperto fra le mani, davanti a me un racconto geniale che però non riuscivo a leggere (la vista rimbalzava sulle parole invece di comprenderle), perché troppo divertente, troppo leggero, troppo sereno, così poco italiano.
Quanto durerà ancora, mi chiedevo, questo nostro mondo umano? Quanto tempo prima che una nuova e migliore civiltà si sviluppi dall’evoluzione dei delfini, dei felini, dei corvi o delle api, sempre che non si finisca con lo sterminare anche loro come stiamo facendo coi rinoceronti?
Alcuni dicono “pochissimo”, pensando ai missili atomici sovietici.
Altri dicono “poco”, pensando alle guerre sante nucleari di quando (molto presto) le testate atomiche le avranno quei simpaticoni degli arabi.
Altri ancora rispondono “troppo”, pensando che il genere umano è una malapianta delle più infestanti, e che l’erba grama non muore mai.


6

Chiavi in meno


 Il 3 di agosto era domenica, e avemmo parecchi ospiti a pranzo. Qualche faccia già vista alla fattoria di Schnapsy (lui e la moglie non c’erano) e qualche altra no, ma solo coppie sul maturotto, niente ragazzini con cui giocare. Un noioso consesso di vecchi barbagianni (Bernardo e Martina erano stranamente molto più giovani di tutti i loro invitati) che parlavano solo in svizzerotto tedesco, e mi squadravano impietositi e furtivi come fossi stato una specie di profugo, e scopo della riunione raccogliere fondi per comprarmi vestiti, e scatolette di cibo per italiani. Se ponevano domande su di me, lo capivo dagli sguardi sospettosi (avrà mica bombe in tasca, il ragazzino?) e dai toni da cospirazione.
Per buona misura, alcuni di questi barbagianni terùn dei tùder (“terroni dei tedeschi”, come sentii dire una volta dallo zio Clemente Zancopè) continuavano a ripetere Bologna, Bologna, e ancora Bologna, sempre pronunciato a modo loro (“Und shtrìmpfete, und shtrùmpfete, Pullonie, shdràmfete…” o “italienish… Pullonie… kaputt…”), e nel farlo secernevano commiserazione, poraccio, sembravano dire in svizzerotto, viene da quei posti là, e mi guardavano come si guarderebbe un negretto che muore di fame in quei filmini pro Missioni.

Pare che nelle prime ore, in Italia, qualche spiritoso fosse riuscito a ipotizzare l’esplosione di una caldaia a causa di un semplice guasto. Le famose caldaie a tritolo. Depistaggio o imbecillità che fosse, ciò aveva rallentato l’abbrivio delle indagini di polizia, e concesso ai bastardi assassini ore e ore di vantaggio per dileguarsi e far sparire ogni traccia. Per certi aspetti, che potremmo chiamare onorabilità internazionale, essere italiano era pure un po’ peggio che essere un negretto che moriva di fame. Non avevano proprio tutti i torti, i barbagianni, a guardarmi così.
Che s’inculassero, però.