"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

mercoledì 31 agosto 2016

Silvia Pareschi - I JEANS DI BRUCE SPRINGSTEEN (e altri sogni americani)



Silvia Pareschi, una delle nostre migliori traduttrici di romanzi americani (se in libreria foste indecisi fra due titoli a stelle e strisce prendere quello tradotto da lei non sarebbe una cattiva idea, perché il livello della traduzione è qualcosa di moolto importante) esordisce come narratrice nel catalogo Giunti per accompagnarci nella “sua” America con dieci deliziosi racconti, uno più vivace e azzeccato dell’altro.
Se ci trovassimo in campo audiovisivo, il suo più che un film sarebbe un documentario. Ma un documentario brioso, variegato, avvincente, sempre interessante. Soprattutto un documentario onesto, capace di mostrarci le spaventose contraddizioni di quel mondo senza i soliti stucchevoli filtri ideologici smaccatamente (e noiosamente) “pro” o “contro”.
Nel racconto d’apertura, Puma, c’imbattiamo nel fascino e nei pericoli della natura selvaggia californiana (e il pensiero correrà subito a Thoreau), sullo sfondo di uno dei lati più belli e sorprendenti dell’America: quella filantropia culturale che rende possibili residenze in cui gli artisti vengono ospitati gratis (a sua volta in immediato, stridente contrasto con uno dei lati peggiori: il solo pensiero di dover avere a che fare con l’esosa sanità statunitense, dove o non ti curano o ti rapinano peggio della più bieca strozzinaglia).
A dir poco esilarante il pezzo di bravura successivo, Il Palazzo del Porno, con panoramica tragicomico-incredula su perversioni assortite, dove l’autrice inanella perle di questo tipo: “… un meccanofilo cercherà disperatamente di avere rapporti sessuali con biciclette, automobili, elicotteri e aeroplani. Un tizio inglese ha raccontato di aver fatto sesso con più di mille auto; oggi ha messo la testa a posto e vive con la sua fidanzata, un maggiolino Volkswagen bianco di nome Vanilla”.

Lo stile è per lo più volutamente semplice, asciutto, quasi colloquiale (anche se non mancano pennellate di gran classe), cordialmente al servizio del lettore e delle sue curiosità transatlantiche. E questo è un lato assai positivo, perché Silvia dimostra in tal modo di essere persona capace di scrivere, senza nessun bisogno di scopiazzare i mostri sacri che traduce (fra cui Franzen, McCarthy e DeLillo, tanto per fare tre nomi) per accreditarsi come narratrice, e trovare una sua gradevolissima e limpida voce.
Il solo minuscolo difetto che si può rilevare (e voglio scriverlo, proprio perché si capisca che questa non è una marchetta, ma una recensione elogiativa meritata e sincera) sta in alcune scelte di traduzione o non traduzione: il testo di una commovente canzone è stato lasciato soltanto in inglese, mentre vengono scolasticamente spiegate espressioni alla portata di tutti come “fucking machines” o “main street”.
Altro pezzo imperdibile è La scelta della religione, un viaggio a episodi nella variegata (e pasticciata) galassia multireligiosa americana (fra cui spicca la descrizione di una strepitosa messa-jazz), che mi ha reso antipatici quei santoni escrementizi che si approfittano della gente manipolabile e ignorante, e simpatici i quaccheri e gli unitaristi, nonché le molto eretiche (ed erotiche) Sorelle della Perpetua Indulgenza. “Uno pseudo-Gesù seminudo con le pudenda coperte da uno straccetto cammina tra la folla al guinzaglio di una pseudo-suora in minigonna inguinale che lo frusta con un gatto a nove code…” “«Siete pronti a far incazzare un po’ di cristiani?» grida Sister Roma, in calzoni di paillette rosa, casacca nera, boa di piume rosa fissato sulla testa a mo’ di velo e faccia truccata da maschera kabuki. «Ma noi sappiamo che Gesù aveva il senso dell’umorismo! Sono loro che non ce l’hanno!» Sister Roma, all’anagrafe Michael Williams, è un membro di vecchia data delle Sisters of Perpetual Indulgence, l’ordine di suore travestite fondato a San Francisco con il motto “Va’ e pecca ancora” e con la missione di aiutare gli emarginati e promuovere i diritti umani, il rispetto per la diversità e l’illuminazione spirituale”.
E se queste suore travestite vi hanno scandalizzato, vi consiglio di andare a scoprire, poche pagine più avanti, le sconcertanti misure prese dalla gretta ipocrisia cattolica per tener lontani dalle chiese i senzatetto mediante spruzzatori ad acqua (non santa), e poi decidere quale delle due cose sia più blasfema, e quale abbia più aderenza col Divino grazie all’esercizio della generosità, della carità, della solidarietà, della comprensione umana, insomma dell’Amore.
Poi, a proposito di acqua, vi raccomando Katrina, un piccolo rabbrividente capolavoro ambientato nella New Orleans devastata dall’uragano.
Ed è solo per mancanza di spazio (e per lasciarvi un po' di sorprese) che non mi dilungo a dirvi quanto mi siano piaciuti TUTTI gli altri racconti: Lavanderia a gettone, Ganja Yoga, Misofonia, Il dentista ai tempi del Super Bowl, I jeans di Bruce Springsteen.

È sempre bello quando una lettura ti fa sentire affine alla persona che scrive, e qui sono assai numerosi i passi in cui, nello snodarsi delle sue (dis)avventure e peripezie, mi verrebbe da abbracciare fraternamente l’autrice. Come quando dichiara, nel cuore del racconto Dimmi come mangi, di far parte di quel meraviglioso manipolo di pazzi resistenti allo smartphone (quel “Nokia del 2001 con i tasti completamente cancellati dall’uso” somiglia tanto al mio!), o quando, più avanti nello stesso episodio, fa luccicare le parole – vera musica per le mie orecchie: “l’eccitazione di aver trovato una rara pepita di sincerità nel monotono deserto della correttezza politica”, o ancora quando esprime tutta la sua antipatia per i “techies” (nuovi stronzetti che si arricchiscono smisuratamente rendendo smisuratamente stupido e tecnoglionito il mondo). 
L’abbraccio diviene poi totale quando compare quella sua maglietta con la scritta “All Work and No Play Makes Jack a Dull Boy”, il saggio proverbio (diventato famoso con Shining) che esorta a lavorare meno e svagarsi di più.
Che altro dire? Che non nascondo il mio orgoglio per aver scoperto – non molto tempo fa – che Silvia (quando non vola negli States col marito americano) è praticamente una mia vicina di casa. Ormai è quasi certo: nel Major Lake del Middle West norditaliano dev’essere disciolto qualcosa di molto simile a una pozione magica.

Non fatemi incazzare.
Parola di Scriba.


martedì 16 agosto 2016

Eresia flash: POKNEURON – le equazioni che non vi dicono.

“REALTÀ AUMENTATA” = INTELLIGENZA DIMINUITA.

(Domandare referenze all’invornito mongoglionito in bicicletta e smerdofono-protesi cerebrale che stava per investirmi su un marciapiede: non solo era tutto preso nel tentativo di catturare un mostriciattolo inesistente che “stava” su una ringhiera, ma ne informava in diretta un altro pirla della sua stessa specie…)

L’equazione sembra banale ma è spietatamente perfetta, perché “intelligenza” significa (intra)vedere col cervello le cose che ci sono, mentre “realtà aumentata” significa vedere con lo smerdofono-protesi cerebrale le cose che NON ci sono.

Obiettivo primario della congiura inferiorizzante tecnoglionita è non lasciare tempo per leggere libri. Anzi, per accorgersi che i libri esistono… (ma vale anche per i film, per la buona musica, per qualsiasi cosa intelligente e/o stimolatrice dell’intelligenza). La congiura, con facilità disarmante, riesce a cambiare (a stravolgere) nel giro di giorni (o minuti?) il modo di stare al mondo della gente: oramai camminare guardando negli occhi chi incontri, o anche solo il panorama, è cosa più sorpassata e dimenticata di un carro trainato da buoi… Peccato solo che così i buoi diventeremo noi.

(E non a caso intelligere è parente stretto etimologico di leggere…)

Ma a colpirmi di più non è la cretinaggine tecnoglionita del giochino, né la sua pericolosità [e in entrambi i casi il peggio deve ancora venire] quanto il fatto di mettersi d’improvviso a fare tutti la stessa cosa. Quale feroce dittatore sarebbe mai riuscito a obbligare il popolino ad andare per le strade a cercare i Pokneuron? E invece adesso il popolino lo fa, ed è pure convinto di farlo spontaneamente [e pure in questo il peggio deve ancora venire].