"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

lunedì 22 novembre 2010

Assaggi di romanzo (7)




da il taccuino rosso di wolfsburg
prima parte del capitolo 25



Dalla Marilù del bosco a portare il latte, nella speranza di trovare il coraggio di baciare ‘sta benedetta Cristina, di sfiorare con le labbra le sue guance di pesca, presi ad andarci tutte le sere. Ogni volta era una storia in tre atti. Il primo atto, l’andata, era allegro e spensierato. Il terzo, il ritorno, era l’atto dei batticuori e dei patimenti d’amore e della rabbia sorda per la mia vigliaccheria. L’atto centrale, più che il latte e il signor Sandro e la Marilù del bosco, riguardava, di nuovo, l’intontita e silente adorazione di quella meraviglia che era il televisore a colori. Certe volte, affacciandomi appena alla soglia del salotto, mi capitava di sbirciarlo, con rispetto e deferente stupore, anche spento.
A casa mi accontentavo dei fumetti. Prima dei Tex la mia passione erano stati i Topolini. Ma anche di quelli non è che me ne comprassero tanti. Mi toccava prenderli a prestito dalla biscugina Violetta di Cuvio e dimenticarmi di restituirli. Mi approvvigionavo da questa cugina di secondo o terzo grado molto più grande di me che ce li aveva proprio tutti, e poi soffrivo di amnesie restitutive. Aveva anche quelli con le medagliette metalliche dell’Operazione Quack, però le medagliette non c’era verso di ranzarle via perché la grandona le teneva sotto chiave. Il mio preferito era Paperinìk. Anch’io mi vedevo come un eroe mascherato, quando espropriavo i Topolini. Corradinìk alla riscossa! Ma lei era molto stronza e possessiva e non gliene sfuggiva uno. Doveva tenere uno schedario su cui annotava i numeri di serie. Martedì 23 maggio. Topolini 672, 894 e 895. Se doveva assentarsi si cautelava contro le mie incursioni mobilitando una specie di prozia zoppa che viveva con loro, e m’impediva di prenderne altri se non restituivo i precedenti. La prozia zoppa non li chiamava giornalini. Li chiamava “i libri della Violetta”. Non capiva un put, quella lì. Probabilmente non capiva neanche di essere zoppa e pensava che gli strani fossero gli altri. Oppure veniva lei, la Violetta di Cuvio, in missione a cercarmeli a casa, e io non riuscivo mai a nasconderli abbastanza bene. Avrebbe dovuto vergognarsi, quella grandona.

Gli Stevanato non avevano il telefono. Ogni tanto la Beatrice veniva da noi per chiamare nel Veneto. Telefonava in piedi per non disturbare la sedia o non sfondarla, e ci faceva sbellicare coi suoi intercalari e i suoi ondeggiamenti d’anca. Per un po’ credemmo che la parente con cui parlava si chiamasse Imelda, poiché sembrava ripetere di continuo “Va, Imelda, va Imelda”, ma poi se prestavi maggior attenzione scoprivi che l’intercalare telefonico era “Va’ in merda”, detto però con affetto.
Dopo ci lasciava duecento lire sul tavolino del telefono.
La Marilù del bosco ne aveva uno a muro in fondo al corridoio, ma io non l’avevo mai vista telefonare e sospettavo fosse finto. Una sera aprimmo la porta che non era mai chiusa a chiave, e la Marilù del bosco, di solito la donnona più tranquilla e rassicurante del mondo, era lì in fondo al corridoio che sbraitava. Stava parlando con la sorella di Cuveglio, così ci parve di capire, e si lamentava a gran voce. Nel corridoio rimbombavano parole volgari che io avevo creduto non conoscesse nemmeno. Né lei né il corridoio. Ce l’aveva con la farmacista di Cuviago. È mai possibile, si lamentava, che tutte le volte uno debba dire davanti a quindas persone che la pomata gli serve perché ghe brusa el cü? Ebbene sì, santa Madonna, el me brusa ‘l cü! E alùra? Secondo me, si lamentava, quelle stronze delle farmaciste lo fanno apposta. Succede ogni volta, sempre, mica dimà a Cüviàgg, m’è succedü, anca a Shtì, e a Caravé, e giò a Lavinia, e semper dimà par i pumàtt contro il bruciore all’ano. Qualsiasi altra cosa tu compri, dall’aspirina ai barbiturici alla cicuta non gliene frega niente a nessuno, mai nessuno che ti domanda “a che cosa le serve”. Ma se tu compri una pomata contro il bruciore all’ano, ci sarà sempre una stronza di farmacista che ad alta voce ti chiederà davanti a tutti: “E a cosa le serve codesta pomata?” Solo se non c’è nessun altro in negozio, non te lo chiedono. Ma se ghè lì di gent: “Per cosa le abbisogna la pomata, signora?” Mi abbisogna perché ci ho giù un incendio nei paraggi del culo, santa Madonna dei pompieri!
Di andare a contemplare la tv a colori accesa o spenta non se ne parlava, perché il signor Sandro era parcheggiato di sbieco in salotto e armeggiava laborioso con la patta aperta come se volesse mettersi a pisciare sul tappeto, per una forma di protesta o che so io, (magari la telefonata andava avanti così da un paio d’ore, porcu dìghel) e la diatriba anale non accennava a sfumare o a placarsi, così io e la Cristina dopo esserci lanciati uno sguardo d’intesa andammo ad appoggiare la bottiglia piena di latte sano puzzolente appena munto, insieme a un paio di mosche di staffetta che ci avevano seguito, sul tavolo della cucina, dove regnavano odore di piatti lavati e pace di pendola. Poi prendemmo quella vuota del giorno prima per il giorno dopo che la Marilù del bosco aveva risciacquato e preparato lì per noi e, dopo aver rivolto alla suddetta Marilù Infuriata Per L’Interrogatorio Sulla Pomata un non ricambiato cenno di saluto, sgattaiolammo fuori.
Allora dopo sulla via del ritorno io facevo l’imitazione della Marilù del bosco che gli brucia il culo, la Marilù del bosco che grida “Me brusa ‘l cü, e alùra?!”, facevo l’imitazione e la Cristina rideva come una matta, e anch’io ridevo ma lei di più, perché io mi dovevo controllare per non interrompere l’imitazione e lei no, e più rideva più mi si stringeva addosso a frotte di Cristine che mi davano spallate come per sbattermi fuori strada nel bosco (spallate che mi rallegravano il midollo e mi attizzavano focherelli nell’anima) e più mi guardava con occhi innamorati come se mi si volesse mangiare intero lì nella via Roccolo da tanto che mi amava e da tanto che la facevo divertire, era un momento così bello da augurarsi che non finisse mai, perché i suoi occhi ridevano e di certo mi amavano, al punto che mi chiesi, lì per lì, se il segreto per far innamorare le femmine non fosse proprio quello di riuscire a farle ridere – e noi maschi piciorla che credevamo bisognasse essere belli e coraggiosi e regalare fiori e anellini e fare a botte per loro, quando invece bastava solo essere simpatici e farle morir dal ridere!
Da tanto che rideva la Cristina le uscivano le lacrime dagli occhi, erano belle, quelle lacrime, mi piacevano, m’ingolosivano, avrei voluto berle, e avrei voluto fossimo più grandi e già sposati per abbracciarla e metterglielo dentro lì per strada e fare un altro figlio dei magari quindici moribondi di fame che avevamo già, e a un certo punto ci fermammo a ridere, io di fronte alla Cristina del mio cuore e lei di fronte al Corradino del suo cuore, lei con le lacrime di riso sulle guance e il collo della bottiglia vuota in una mano, io senza niente in mano tranne la voglia di accarezzarle le lacrime e di metterlo dentro alle lacrime e stringerla forte forte forte più di come lei stringeva la bottiglia, e allora qualcosa mi disse che il momento era quello, che l’occasione non si sarebbe ripetuta, e mi slanciai verso di lei per azzardare un bacio su una guancia, non in mezzo alla guancia ma addirittura a lambire le vicinanze della bocca, presi coraggio e mi slanciai facendo il grugnetto per il bacio in direzione della sua guancia sinistra alla mia destra, ma non avevo calcolato (come potevo calcolarlo? come potevo anche solo sognarlo o implorarlo in preghiera?) che lei in quel preciso istante si sarebbe buttata di scatto verso la mia bocca per baciarmi sulle labbra, e così le nostre bocche a grugnetto pronte a scoccar baci s’incrociarono distanti nello spazio cosmico come quando si dice che una cometa sfiora un pianeta ma in realtà è passata a quarantamila milioni di chilometri, cosicché il suo bacio, la cosa per me più preziosa e desiderabile del mondo, il suo bacio audace e inaspettato destinato addirittura alle mie labbra per farmi felice donandomi l’ambrosia delle sue mancò le mie labbra e andò sprecato nell’aria della sera (o magari beccò un moscerino non all’altezza di apprezzare la fortuna che gli stava capitando), mentre il mio, destinato alla sua guancia sinistra alla mia destra, andò a cozzare goffamente contro la sua orecchia sinistra sempre alla mia destra. Goffamente e pure con una certa violenza, per la somma algebrica dei nostri opposti slanci a grugnetto proteso.
Ci guardammo, istupiditi da quello che era successo. Difficile spiegare il cambiamento repentino che era avvenuto. Era come se invece dell’orecchia le avessi ammaccato un parafango in maldestra manovra, una situazione assicurativa da constatazione (si sperava) amichevole. Se ci fossimo rimessi a ridere la risata ci avrebbe salvati, e probabilmente ci avremmo riprovato con più calma e ci saremmo riusciti, ma io rimasi lì come un allocco, incerto se scusarmi per averla voluta baciare o per averle di fatto impedito di baciarmi o per averle beccato l’orecchia, lei glacialmente perplessa in parte per avermi mancato per colpa mia (era come se avessi voluto schivarla!!), ma soprattutto perché le avevo beccato quella cazzo d’orecchia, insomma l’incantesimo era svanito, lei tacque, io stetti zitto, e lei, dopo aver taciuto, toccò la sua orecchia contusa, come per valutare i danni, e poi mi chiese: «Perché qui?»
«Così», risposi. Da bravo idiota che ero. Neanche l’avessi progettato per mesi con tanto di simulazioni e disegni, di baciarle l’orecchia. Non dissi che mi ero sbagliato e che magari era il caso di riprovare, semplicemente risposi: «Così».
Dopo, da lì fino ai pilastroni della fattoria, non ridemmo né parlammo più.


Nell'immagine in alto: copertina della precedente stesura (intitolata gementeseflentes) con la fotografia artistica di Klas Pedersen AVANZI PERPLESSI DI NATURA COTTA.


giovedì 18 novembre 2010

Sorensen Puddu - Replica (16)

non amarmi ti meno


Ardevo in la biemmevù benimboscata al buio a cm pochi dal mio malassortito e non corrisposto ammòre (io nella mia fase Jane, lui sempre Tarzan, ma meno sofisticato e istruito, più trinariciuto, più Cito imburgnito, e pure maledettamente cocciuto) quandecco telefonò l’intempestivo Ezequiel
Aló, como va?
Bene, grazie, e tu?
Bene, grazie, e tu?
Bene, grazie, e tu?
Bene, grazie, e tu?
Chiedigli come sta, s’intromise il mio malassortito ammòre
Il mio malassortito ammòre mi chiede di chiederti come tu stai, o intempestivo Ezequiel
Bene, grazie, e lui?
Bene, grazie, e tu?
Bene, grazie, e lui?
Lo so che repetita scassant, ma del resto riattaccare in faccia a un amico è cosa che a livello galateiale non si fa, linasotis stradocet
Laocoonte per cui spensi

Ti dissi ti amo e tu rimanesti esterrefatto come uno stronzo uscito di bocca, cioè col permesso di linasotis cagato contromano. Poi arrivò la tua risposta e io rimasi tume fatto. Ti dissi ti odio e tu mi dicesti OK, questo è accettabile. Eppure credevi nell’amore universale e ti piaceva quel signor cristo. Ti diedi un bacetto piccino e lieve sul labbrotto e tu con un pugno mi facesti volare quattro denti dei più belli tra cui proprio il mio preferito contro il parabrezza interno della biemmevù. T’appioppai una pappina spaccanaso e tu dicesti OK, questo è già più normalino-omologatino, finalmente un gesto schietto da ometto perfetto – che ce l’avresti un fazzoletto por la sangria nasàl?
Ma de nuevo, mierda y vacca merenda, l’intempestivo Ezequiel
Ola, cioè s-ciaos, como vas?
Mira che il movìl es spentolinos!
Bene, grazie, e tu?
Aggia skassat’a miinkya!
Bene, grazie, e tu?
Simulai un ictus alle batterie.

Eravamo sempre lì, mi sdentàt, yu epistàss (ma come ci eravamo arrivati a imboscarci così bene? allora inconsciamente ci stavi, brutta checca repressa?) me Yanez corretto Marian, tu Sandokaz, ma più bruto, più rude, più puzzolente, atto a difendere la tua macha pisellonità anacronistica a colpi di scimitarra scorbutika e fetente
Mi vuoi un po’ di bene?
Boh
Un po’ di pene?
Passo
Bacino?
Ti ammazzo
Cazzotto in testa?
Yess
Ma di che segno sei?
Lattuga
Questo spiega tutto
Cioè?
Che ne so. Mai stato attento, alle spiegazioni

Provai con una carezzuola, e mi ammollasti una cazzuolata di quelle che arrivano di taglio nelle balle, frastagliandole. Ti assestai un bel calcione nel culo che così da seduti non so come ci ebbi riusciuto e tu mi dicesti OK, finalmente un comportamento non dico da maschio ma almeno, perdiana, da uommmo. Eppure credevi n’il dolce clito universale e nella bellezza senza pari dell’amore. Ti regalai una rosa e tu mi denunciasti delatore al telefono macho. Eppure pergabbana avevi sempre detto di non sapere il numero. Ti dissi Guarda che meraviglioso planar di gabbiani nel crepuscolo e tu mi sputasti in bocca. Ti dissi Fffiuuuuu, ardakeffffffiiga! mentre passava la tua mamma, e tu mi dicesti Forse non sei del tutto senza speranza, ex amico mio, e comunque vaffanculo e beccati ‘sto gancio alla bocca dello stomaco e non farti più vedere, brutto finocchio. (Hai ragione, scusa: tua mamma non è figa. È un cesso umano che mollami, anzi, scrofigno. Altri due denti). Ma perché rifiuti di godere assai mediante stimolazione digitale del tuo perineo sulla biemmevù benimboscata al buio che non ci vede nessuno, per colpa di uno stolto pregiudizio viriloide? Se il tuo dio non avesse voluto farci godere non avrebbe dato un punto G financo ai cazzoncelli, o quantomeno non lo avrebbe piazzato da quelle parti lì!, postulai. Allora tu come risposta volesti stimolarmi un’altra settina di piccole ossa gengivali, e quella mi conveniva considerarla oltre che un uppercut una risposta definitiva, giacché i dentini cominciavan a scarseggiare, e l’effetto di tanto affetto a influire su certe consonanti della mia dizione

Sulla biemmevù si creò un grandevuoto, riempito solo dalla scoreggia di cui mi omaggiasti prima di scendere furibondo e petente. Incisivi e premolari a parte, non una grandeperdita per me, ma una doppia perdita (di Me e di gas) for you
Ti consigliai una visitina da mio cugino, il famoso gastropetologo (vetero etero, vai tra)
Ti chiesi anche perché diavolo scendevi e te ne andavi, visto che la biemmevù era la tua, ma tu non volesti sentir ragioni e io pensai di correre a rivendermela
Tornatore indietro ti facesti per dirmi una robina
Stavi forse insinuando che il mio subconscio è frocio, visto che la macchina era mia e guidavo io e son venuto a imboscarmi con te?!!
Che ne so
Allora tienti il mio subconscio e la biemmevù e andatevene affanguglia tutti e tre
Posso rivenderla?
No, mangiala
E con cosa la mastico?

A quel punto ero talmente ferito e contuso e sballottato e sanculotto da non capirci più un cristo, e allora in quella mi apparve un tizio e disse Vedo che la mia storia non ti ha insegnato proprio nulla
Ma come, non capisco
Dico, sapevi di giovanni e ci provi lo stesso con diegubaldo? Se è andata male a me, come speravi andasse a tu, che sei fetecchia di polvere e polvere tornerai, e scaracchio di cenere nel mio portacenere?
Non capisco.
Vedi di svegliarti!
Cioè?
Ti sto chiedendo, sapevi di giovanni?
Diciamo di sì, lo assecondai.
E per cosa credi che mi abbiano appeso?
Va bene, ma tu chi cavolo sei, che non capisco più un cristo?
Sono per l’appunto l’invan summenzionato unto e non caputo
Presi uno spillo e feci scoppiare l’apparizione

Mentre cercavo denti sul tappetino ritelefonò l’intempestivo Ezequiel
Uélla, come va?
Egne, accie, e u?
Bene, grazie, e tu?
Egne, accie, e u?
Bene, grazie, e tu?
Sfanculai e riagganciai (cara linasotis, quando ci vuole ci vuole) ma poi tu ti rifacesti tornatore indietro (2 maroni) e mi dicequi Va bene mi hai convinto sono tuo baciami carezzami proteggimi sposami riempimi di coccole leccami succhiottami penetrami sfondami sgonfiami fammi, fammi di tutto e fallo presto che più non resisto ammoremmìo!
Spiacente, risposi, tempo scaduto, è orora terminata la mia fase Jane, ho giustappunto appuntamento fra due minuti e un quarto con tua sorella per una trombatella regular vaginella
Fin troppo prevedibboli la tua reazzzione:
denti finiti, storiella pure

fimmafo: foenfen fuffu


martedì 2 novembre 2010

Poesie del poeta pentito

Ne ho scritte solo fra i 16 e i 19 anni. Poi smisi, perché mi parevano bruttine. Ma su questo blog ho deciso di darmi con generosità, senza paura di figuracce. Quindi, vogliatene gradire un microassaggio.



COINCIDENZE SUL BINARIO MORTO


Corre
La terra
Luccicante
Sui campi
Sonnolenti

(Così stanco
Di stare
Da solo...)

E mi guardo
Con sospetto
Nel vetro

Sto vivendo
Come un'ala
Senza volo




OCCHI SUL TRENO CHE CORRE


Tu,
Occhi belli sul treno che corre
Forse un giorno ti rincontrerò
Sarai madre di tre o quattro figli
E io chissà come sarò

Tu,
Occhi dolci sul treno che corre
Forse un giorno ti rincontrerò
Sarai padre di tre o quattro figli
E io... io temo proprio di no

Tu,
Occhi stanchi sul treno che corre
Forse un giorno ti rincontrerò
Sarai una foto su una lapide bianca
E io credo che t'invidierò

Tu,
Occhi ciechi sul treno che corre
Dal respiro senti che sono triste
Stai per dirmi qualcosa di dolce
Ma purtroppo devo scendere qui




VENTO BASTARDO


Uccelli
Imperterriti
Volano
Via
Pur se
Il vento
Bastardo
Li vorrebbe
Fermar

Il mio
Cuore
Incagliato
Dentro questa
Poesia
Sta cercando
Il sistema
Di venire
Da te

E di tante
Illusioni
Celate in fondo
Al mio sguardo

Restan solo
Bastarde
Poesie
Dentro il vento
Bastardo