Fraseggio
Erano quasi le otto del mattino. Era inverno. E soprattutto era domenica. L’acqua aveva cominciato a venir giù poco prima dell’alba, sferzata contro le tapparelle da un vento gelido e insistente. Nei tre palazzi gemelli della nuova periferia residenziale una luce soltanto era accesa, lassù al quinto piano della costruzione di destra. Una lucina arancione tenue tenue che vista da fuori e dal basso non squarciava il grigiopioggia neanche un po’. Era la cucina di Loffante, l’allenatore di basket.
Con movimenti felpati, per non svegliare moglie e bambini, Loffante si era alzato al momento dovuto senza bisogno di puntare la sveglia, aveva ciabattato fino in bagno, aveva pisciato e scorreggiato, e adesso era lì in cucina a prepararsi il caffè. Non pisciava più ma scorreggiava ancora. Solo un altro paio di colpetti. Assestamento, poca roba. Peto, ri-peto. Altro petino. Basta.
Accese la radiolina e la depose sul tavolo. Regolò il volume scendendo a patti col concetto d’infrasuono. Captò il segnale orario delle otto. Alzò leggermente. Per essere l’unico giorno in cui avrebbe potuto dormire a piacimento, era una bella levataccia. Adesso il volume andava bene.
La squadra di seconda divisione che allenava due sere la settimana si trovava a Cuviago, qualcosa più di quindici chilometri dalla città, e quel che era peggio aveva la pessima abitudine di disputare le partite casalinghe di domenica mattina. Loffante aveva accettato di diventarne allenatore dopo aver giochicchiato in varie altre squadre fin quasi a cinquant’anni. Si era lasciato convincere a causa del suo grande amore per quello sport, e per aiutare una società di buoni amici che, a volerla dire proprio tutta, difficilmente avrebbe trovato un tecnico vero. Era un uomo altissimo e massiccio, i baffi appena appena sgrigiti. Stazzava oltre il quintale, ma nessuno che non cercasse guai gli avrebbe dato del ciccione.
Spillò dal rubinetto l’acqua necessaria a lambire la vite interna della sua moka, facendo attenzione. Poi inserì il filtro, e tolse il coperchio di plastica dalla scatola del caffè macinato. Mise ogni cura a non sbagliare la dose, e assestò colpi rapidi e leggeri col taglio del cucchiaino per non pressare troppo la miscela, che spandeva tutt’attorno il suo profumo. Infine avvitò la caffettiera, le diede una stretta possente con quelle sue mani simili a tenaglie, e accese il più piccolo dei quattro fornelli.
Loffante non aveva neanche il patentino federale, ma in tutto il campionato di seconda divisione c’erano solo due arbitri – quel vecchio pignolo di Corcugliati e l’odioso Rizzuto Caporalo, figlio di non meglio precisato poliziotto – che gl’impedivano di sedersi in panchina e lo facevano accomodare in tribuna, oppure al tavolo dei cronometristi. Tutti gli altri chiudevano un occhio. Forse intimiditi da quei suoi capelli corti e ispidi da istrice incazzato.
Mentre aspettava il caffè, sistemò sul tavolo una tazzina con dentro una zolletta di zucchero, e si sedette a sfogliare un giornale, proprio mentre Petunia, che si era svegliata nonostante le sue precauzioni, entrava in cucina con una vestaglia viola chiaro e un’espressione tirata da mattina presto, due fessure al posto degli occhi, e andava subito ad armeggiare con la macchinetta per l’espresso, ben sapendo che Loffante non avrebbe tardato più di un minuto a magnificare l’aroma superiore del caffè fatto con la moka. Petunia aveva ventisei anni, la metà di quelli del marito, e poteva sembrare sua figlia.
Il giornale radio locale stava parlando di una tizia che era entrata in ascensore al decimo piano di un palazzo. La porta si era aperta e lei era entrata. Ma l’ascensore non c’era. Sfracellata. Una fine orrenda. La donna usciva dallo studio di una cartomante che predice il futuro.
La moka si mise a borbottare. Loffante la sollevò dal fornello e si versò il caffè, non prima di aver annusato con ostentato rapimento dei sensi, come nel peggio recitato degli spot pubblicitari, il vapore che usciva dal beccuccio.
«C’è più gusto in questa nuvoletta che in tutta la tua tazza» disse a Petunia, che stava già sorseggiando l’espresso veloce sbrodolato fuori dalla sua Gaggia.
Per tutta risposta la moglie si limitò a sfoderare un sorriso assonnato, a denti stretti e occhi più cisposi di prima, seguito da un impercettibile scuotimento di testa.
«Hai visto sul Piccione Sera di venerdì?» chiese Loffante, quand’ebbe finito la sua degustazione. «SECONDA DIVISIONE MASCHILE. IL CUVIAGO DI LOFFANTE BALZA AL QUARTO POSTO.»
«Sono soddisfazioni» commentò Petunia con un velo, appena un velo, d’ironia.
La pioggia frustata dal vento veniva giù di traverso e tamburellava sui vetri. Di cielo non ce n’era più per nessuno.
Loffante non staccava lo sguardo dal microscopico trafiletto di sport locale di quel giornale di provincia, comprato soltanto da giocatori dilettanti di calcio e pallacanestro in cerca del proprio cognome, il più delle volte scritto sbagliato, e da certe vecchine che controllavano i necrologi. Per i primi era “il Pìcius”, per le seconde “ür giurnaal”. Morire sul campo da giovane atleta avrebbe comportato doppia fama, da quelle parti. Loffante stava pensando di ritagliare quel titolo e incorniciarlo, magari dopo averlo fatto ingrandire almeno un po’.
Alla radio le previsioni meteo prefiguravano un peggioramento. Sembrava una burla. Peggiorare quel tempo da lupi. Anche se al peggio, persino lui lo sapeva, non c’è mai stato limite alcuno.
Ad ogni modo l’allenatore del Cuviago, imperterrito, continuava a godersi la notizia delle sue gesta. Guardava l’articoletto e annuiva. Guardava l’articoletto e gongolava. Guardava l’articoletto e si grattava la nuca.
«Ti chiamano Lo Bue.»
Nella cucina, arancionata dal paralume acquistato all’Ikea, si diffuse una ventata di gelo. Nemmeno Petunia sembrava in grado di spiegarsi perché avesse buttato lì quella frase. Non l’aveva fatto con cattiveria. Aveva piuttosto l’aria di una madre che cerca, a malincuore, di risvegliare un figlio da illusioni sbagliate.
«Chi» domandò il marito.
«Soprattutto quel Pedersoli. Credo si chiami così. Quello alto alto magro magro che non gioca quasi mai. Ma temo anche gli altri.»
«Lo Bue?» ripeté Loffante. Impietrito. Non gli sembrava possibile.
«L’ho sentito io. Con le mie orecchie. Era in tribuna che guardava la partita con dei suoi amici. Non lo avevi nemmeno convocato per la panchina. Era lì vicino a me. Sarà stato tre settimane fa, quella volta che ho portato i bambini a vederti. Non poteva immaginare, che sono tua moglie.»
«Se sapesse che ho una bella moglie di ventisei anni, forse mi troverebbe molto meno bue» cercò di metterla sul ridere. Ma il suo era il tono di un uomo deluso. Quello che si dice un duro, ma era bastata quella rivelazione per farlo star male. Sentì una fitta alla bocca dello stomaco.
«Pensare» aggiunse con amarezza, «che ho dato io l’okkèi per accettarlo in squadra, e viceversa. Ma tu, perché me lo dici solo adesso?»
«Non volevo che ne soffrissi» disse la moglie. «Poi ci ho ripensato. Tu ci metti troppo cuore, in questa cosa. È ora che tu apra bene gli occhi.»
«Quel magrolino del cazzo» disse. «Solo perché lo faccio giocare poco. Solo perché lo tormento un po’ per il suo bene quando sbaglia in allenamento e viceversa. Gliela farò pagare.»
«Non è solo lui, se è vero quello che diceva agli amici.»
Loffante spense la radiolina picchiandoci sopra una manata rabbiosa, che fece tremare la superficie del tavolo.
«Piano, i bambini» disse Petunia.
«Scusa» si ricompose l’allenatore Loffante di seconda divisione. «Dimmi che altro c’è».
«A sentire lui, tutti nello spogliatoio ti prendono in giro, tutti ridono alle tue spalle. Alcuni dicono che non capisci niente di basket. Altri che più che un allenatore sei un participio presente, ma questa non l’ho proprio capita.»
«Alcuni chi.»
«I fratelli Conigliaro, per esempio.»
«Quelle tre gatte morte.»
Loffante si alzò in piedi, a contemplare la pioggia attraverso la finestra. La sua caffettiera ancora calda lo guardava perplessa da sopra il ripiano del lavandino, e lui sembrava uno che si sta chiedendo se non sia il caso di tornarsene a letto. Tacque per un lungo minuto, poi:
«Che altro si dice» domandò.
«Dicono che sei andato a spiare una squadra avversaria, che è una cosa che a questi livelli non fa nessuno, e che l’hai fatto per darti importanza con te stesso. Dicono che dopo esserti sorbito cento chilometri tra andata e ritorno per spiarla, ne hai ricavato come unica osservazione che il play e l’ala “fanno un fraseggio”, e pare che questa cosa li abbia fatti scompisciare dalle risate, e che sia diventata la frase tormentone dello spogliatoio. Mentre raccontava di questo fraseggio, per poco Pedersoli non scoppia dal ridere. Era piegato in due. Gli faceva male la pancia.»
«Ci penso io a piegarli in due, martedì sera. Vai avanti.»
«Devo proprio?»
«Devi. A questo punto devi. Hai cominciato e ora devi finire. E viceversa.»
Petunia si alzò a sua volta, e si avvicinò al marito. Gli mise una mano su una spalla, come a scusarsi di ciò che stava facendo, ma anche un po’ per consolarlo. Poi arretrò di un passo per inquadrarlo meglio, e proseguì:
«Dice che chiedi cose che non stanno né in cielo né in terra, come, che ne so, stoppare con due mani invece che con una sola. Che non conosci uno schema di gioco che sia uno. Che fanno di proposito il contrario di quello che ordini durante i time out, perché altrimenti gli faresti perdere le partite… Sai che c’è? Non mi va che ti trattino così. Non mi piace. Non lo meriti. Con tutti i sacrifici che ti costa allenarli. Gratis. Rimettendoci i soldi della benzina. E le mattine di domenica. Le mattine di domenica insieme alla tua famiglia.»
Altro peggioramento in arrivo.
Barometro coniugale.
«Lo faccio per passione, lo sai» si giustificò Loffante, allargando le braccia.
Per la prima volta da quando lo conosceva, a Petunia sembrò d’intuire la presenza della traccia di una lacrima su quel faccione burbero. Ma doveva essere un inganno della luce, e delle gocce d’acqua fredda che si rincorrevano sul vetro.
«È ora che vada» disse l’allenatore Loffante di seconda divisione. Praticamente Serie Zeta. Lo aspettavano qualcosa più di quindici chilometri sotto la pioggia. E qualcosa meno di un’esperienza umana gratificante.
«Hey » sussurrò la moglie quando fu sulla soglia di casa: «Sii paziente, con quei ragazzi.» Gli diede un bacio, e poi se ne stette lì a guardarlo, finché tutto quel corpaccione non sparì oltre la prima rampa di scale. Sii molto paziente, ripeté col pensiero Petunia, richiudendo la porta. E viceversa, aggiunse poi a mezza voce. Ma subito si pentì di averlo detto.
C’era da preparare la colazione ai bambini, fra poco.
Di sotto la vestaglia viola chiaro, sommesso e lieve partì un peto.
Con movimenti felpati, per non svegliare moglie e bambini, Loffante si era alzato al momento dovuto senza bisogno di puntare la sveglia, aveva ciabattato fino in bagno, aveva pisciato e scorreggiato, e adesso era lì in cucina a prepararsi il caffè. Non pisciava più ma scorreggiava ancora. Solo un altro paio di colpetti. Assestamento, poca roba. Peto, ri-peto. Altro petino. Basta.
Accese la radiolina e la depose sul tavolo. Regolò il volume scendendo a patti col concetto d’infrasuono. Captò il segnale orario delle otto. Alzò leggermente. Per essere l’unico giorno in cui avrebbe potuto dormire a piacimento, era una bella levataccia. Adesso il volume andava bene.
La squadra di seconda divisione che allenava due sere la settimana si trovava a Cuviago, qualcosa più di quindici chilometri dalla città, e quel che era peggio aveva la pessima abitudine di disputare le partite casalinghe di domenica mattina. Loffante aveva accettato di diventarne allenatore dopo aver giochicchiato in varie altre squadre fin quasi a cinquant’anni. Si era lasciato convincere a causa del suo grande amore per quello sport, e per aiutare una società di buoni amici che, a volerla dire proprio tutta, difficilmente avrebbe trovato un tecnico vero. Era un uomo altissimo e massiccio, i baffi appena appena sgrigiti. Stazzava oltre il quintale, ma nessuno che non cercasse guai gli avrebbe dato del ciccione.
Spillò dal rubinetto l’acqua necessaria a lambire la vite interna della sua moka, facendo attenzione. Poi inserì il filtro, e tolse il coperchio di plastica dalla scatola del caffè macinato. Mise ogni cura a non sbagliare la dose, e assestò colpi rapidi e leggeri col taglio del cucchiaino per non pressare troppo la miscela, che spandeva tutt’attorno il suo profumo. Infine avvitò la caffettiera, le diede una stretta possente con quelle sue mani simili a tenaglie, e accese il più piccolo dei quattro fornelli.
Loffante non aveva neanche il patentino federale, ma in tutto il campionato di seconda divisione c’erano solo due arbitri – quel vecchio pignolo di Corcugliati e l’odioso Rizzuto Caporalo, figlio di non meglio precisato poliziotto – che gl’impedivano di sedersi in panchina e lo facevano accomodare in tribuna, oppure al tavolo dei cronometristi. Tutti gli altri chiudevano un occhio. Forse intimiditi da quei suoi capelli corti e ispidi da istrice incazzato.
Mentre aspettava il caffè, sistemò sul tavolo una tazzina con dentro una zolletta di zucchero, e si sedette a sfogliare un giornale, proprio mentre Petunia, che si era svegliata nonostante le sue precauzioni, entrava in cucina con una vestaglia viola chiaro e un’espressione tirata da mattina presto, due fessure al posto degli occhi, e andava subito ad armeggiare con la macchinetta per l’espresso, ben sapendo che Loffante non avrebbe tardato più di un minuto a magnificare l’aroma superiore del caffè fatto con la moka. Petunia aveva ventisei anni, la metà di quelli del marito, e poteva sembrare sua figlia.
Il giornale radio locale stava parlando di una tizia che era entrata in ascensore al decimo piano di un palazzo. La porta si era aperta e lei era entrata. Ma l’ascensore non c’era. Sfracellata. Una fine orrenda. La donna usciva dallo studio di una cartomante che predice il futuro.
La moka si mise a borbottare. Loffante la sollevò dal fornello e si versò il caffè, non prima di aver annusato con ostentato rapimento dei sensi, come nel peggio recitato degli spot pubblicitari, il vapore che usciva dal beccuccio.
«C’è più gusto in questa nuvoletta che in tutta la tua tazza» disse a Petunia, che stava già sorseggiando l’espresso veloce sbrodolato fuori dalla sua Gaggia.
Per tutta risposta la moglie si limitò a sfoderare un sorriso assonnato, a denti stretti e occhi più cisposi di prima, seguito da un impercettibile scuotimento di testa.
«Hai visto sul Piccione Sera di venerdì?» chiese Loffante, quand’ebbe finito la sua degustazione. «SECONDA DIVISIONE MASCHILE. IL CUVIAGO DI LOFFANTE BALZA AL QUARTO POSTO.»
«Sono soddisfazioni» commentò Petunia con un velo, appena un velo, d’ironia.
La pioggia frustata dal vento veniva giù di traverso e tamburellava sui vetri. Di cielo non ce n’era più per nessuno.
Loffante non staccava lo sguardo dal microscopico trafiletto di sport locale di quel giornale di provincia, comprato soltanto da giocatori dilettanti di calcio e pallacanestro in cerca del proprio cognome, il più delle volte scritto sbagliato, e da certe vecchine che controllavano i necrologi. Per i primi era “il Pìcius”, per le seconde “ür giurnaal”. Morire sul campo da giovane atleta avrebbe comportato doppia fama, da quelle parti. Loffante stava pensando di ritagliare quel titolo e incorniciarlo, magari dopo averlo fatto ingrandire almeno un po’.
Alla radio le previsioni meteo prefiguravano un peggioramento. Sembrava una burla. Peggiorare quel tempo da lupi. Anche se al peggio, persino lui lo sapeva, non c’è mai stato limite alcuno.
Ad ogni modo l’allenatore del Cuviago, imperterrito, continuava a godersi la notizia delle sue gesta. Guardava l’articoletto e annuiva. Guardava l’articoletto e gongolava. Guardava l’articoletto e si grattava la nuca.
«Ti chiamano Lo Bue.»
Nella cucina, arancionata dal paralume acquistato all’Ikea, si diffuse una ventata di gelo. Nemmeno Petunia sembrava in grado di spiegarsi perché avesse buttato lì quella frase. Non l’aveva fatto con cattiveria. Aveva piuttosto l’aria di una madre che cerca, a malincuore, di risvegliare un figlio da illusioni sbagliate.
«Chi» domandò il marito.
«Soprattutto quel Pedersoli. Credo si chiami così. Quello alto alto magro magro che non gioca quasi mai. Ma temo anche gli altri.»
«Lo Bue?» ripeté Loffante. Impietrito. Non gli sembrava possibile.
«L’ho sentito io. Con le mie orecchie. Era in tribuna che guardava la partita con dei suoi amici. Non lo avevi nemmeno convocato per la panchina. Era lì vicino a me. Sarà stato tre settimane fa, quella volta che ho portato i bambini a vederti. Non poteva immaginare, che sono tua moglie.»
«Se sapesse che ho una bella moglie di ventisei anni, forse mi troverebbe molto meno bue» cercò di metterla sul ridere. Ma il suo era il tono di un uomo deluso. Quello che si dice un duro, ma era bastata quella rivelazione per farlo star male. Sentì una fitta alla bocca dello stomaco.
«Pensare» aggiunse con amarezza, «che ho dato io l’okkèi per accettarlo in squadra, e viceversa. Ma tu, perché me lo dici solo adesso?»
«Non volevo che ne soffrissi» disse la moglie. «Poi ci ho ripensato. Tu ci metti troppo cuore, in questa cosa. È ora che tu apra bene gli occhi.»
«Quel magrolino del cazzo» disse. «Solo perché lo faccio giocare poco. Solo perché lo tormento un po’ per il suo bene quando sbaglia in allenamento e viceversa. Gliela farò pagare.»
«Non è solo lui, se è vero quello che diceva agli amici.»
Loffante spense la radiolina picchiandoci sopra una manata rabbiosa, che fece tremare la superficie del tavolo.
«Piano, i bambini» disse Petunia.
«Scusa» si ricompose l’allenatore Loffante di seconda divisione. «Dimmi che altro c’è».
«A sentire lui, tutti nello spogliatoio ti prendono in giro, tutti ridono alle tue spalle. Alcuni dicono che non capisci niente di basket. Altri che più che un allenatore sei un participio presente, ma questa non l’ho proprio capita.»
«Alcuni chi.»
«I fratelli Conigliaro, per esempio.»
«Quelle tre gatte morte.»
Loffante si alzò in piedi, a contemplare la pioggia attraverso la finestra. La sua caffettiera ancora calda lo guardava perplessa da sopra il ripiano del lavandino, e lui sembrava uno che si sta chiedendo se non sia il caso di tornarsene a letto. Tacque per un lungo minuto, poi:
«Che altro si dice» domandò.
«Dicono che sei andato a spiare una squadra avversaria, che è una cosa che a questi livelli non fa nessuno, e che l’hai fatto per darti importanza con te stesso. Dicono che dopo esserti sorbito cento chilometri tra andata e ritorno per spiarla, ne hai ricavato come unica osservazione che il play e l’ala “fanno un fraseggio”, e pare che questa cosa li abbia fatti scompisciare dalle risate, e che sia diventata la frase tormentone dello spogliatoio. Mentre raccontava di questo fraseggio, per poco Pedersoli non scoppia dal ridere. Era piegato in due. Gli faceva male la pancia.»
«Ci penso io a piegarli in due, martedì sera. Vai avanti.»
«Devo proprio?»
«Devi. A questo punto devi. Hai cominciato e ora devi finire. E viceversa.»
Petunia si alzò a sua volta, e si avvicinò al marito. Gli mise una mano su una spalla, come a scusarsi di ciò che stava facendo, ma anche un po’ per consolarlo. Poi arretrò di un passo per inquadrarlo meglio, e proseguì:
«Dice che chiedi cose che non stanno né in cielo né in terra, come, che ne so, stoppare con due mani invece che con una sola. Che non conosci uno schema di gioco che sia uno. Che fanno di proposito il contrario di quello che ordini durante i time out, perché altrimenti gli faresti perdere le partite… Sai che c’è? Non mi va che ti trattino così. Non mi piace. Non lo meriti. Con tutti i sacrifici che ti costa allenarli. Gratis. Rimettendoci i soldi della benzina. E le mattine di domenica. Le mattine di domenica insieme alla tua famiglia.»
Altro peggioramento in arrivo.
Barometro coniugale.
«Lo faccio per passione, lo sai» si giustificò Loffante, allargando le braccia.
Per la prima volta da quando lo conosceva, a Petunia sembrò d’intuire la presenza della traccia di una lacrima su quel faccione burbero. Ma doveva essere un inganno della luce, e delle gocce d’acqua fredda che si rincorrevano sul vetro.
«È ora che vada» disse l’allenatore Loffante di seconda divisione. Praticamente Serie Zeta. Lo aspettavano qualcosa più di quindici chilometri sotto la pioggia. E qualcosa meno di un’esperienza umana gratificante.
«Hey » sussurrò la moglie quando fu sulla soglia di casa: «Sii paziente, con quei ragazzi.» Gli diede un bacio, e poi se ne stette lì a guardarlo, finché tutto quel corpaccione non sparì oltre la prima rampa di scale. Sii molto paziente, ripeté col pensiero Petunia, richiudendo la porta. E viceversa, aggiunse poi a mezza voce. Ma subito si pentì di averlo detto.
C’era da preparare la colazione ai bambini, fra poco.
Di sotto la vestaglia viola chiaro, sommesso e lieve partì un peto.
Mi piace sta lettura di prima mattina-per me di sicuro- alla domenica.
RispondiEliminaBella combinazione di nomi: Loffante, una sbrodata!
È un participio presente, lo dicono anche i suoi ragazzi.
Sai copme si dice a Roma?
"A sor poeta de na raggia,
che puzza più na loffa o na scurreggia?"
E la risposta:
"A sor poeta de la lunala loffa e la scurreggia so tutt'una"
E pure il nome di sua moglie lo trovo pertinente, Petunia.
Bello lo strazio mattutino delle rivelazioni importanti, che non si potevano più nascondere.
Bel racconto, Nik, veramente.Questi sugheri galleggianti su mari tempestosi sono i tuoi personaggi migliori.
Continua poi il racconto?
Vorrei sapere come li ha strippati i Pedersoli e soci al martedì successivo.
Ciao, mon ami
Mi piace questo racconto. Chissà cosa farà l'allenatore una volta arrivato dalla squadra. Farà finta di niente o gli farà un Cazziatone generale?!?!?!
RispondiEliminaSottoscrivo le parole di vincenzo.. Leggere un bel racconto di prima mattina aiuta a proseguire bene la giornata! Bravo Zio! Devo fare in modo di venire più spesso..non posso trascurarti! ;)
RispondiEliminagiornata de 'bburberi oggi allora!
RispondiEliminatra i più belli che ho letto sai? umorismo perfetto senza eccessi, piccolo dramma umano... bellissimo!
confesso che "participio presente" c'ho messo un attimo anch'io a capirla, ahah! so' 'gnorante in grammatica! dovrei venire da te a prendere un po' di ri-peti-zioni... :D
Un buon caffè e' sempre un buon caffè. Detto questo, non posso che concordare con gli elogi degli altri lettori che si sono già espressi!
RispondiEliminaAnche leggere un racconto dopo il pranzo domenicale dà soddisfazione, ma solo se è ottimo. Questo, lo è. Cura per i dettagli, umorismo e tenerezza... la sensazione che si stia parlando della vita, quella vera, quella - per intenderci - che palpita.
RispondiEliminaE' sempre un piacere leggerti, caro Nicola!
Ciao zio Nick:
RispondiEliminaa proposito delle mattinate all'aroma di peto e di caffè,
guardati questo fumettino:
http://youtu.be/7AhLoP1UPjI
Per me è uno di tuoi racconti umoristici ( nel senso che Pirandello dà al termine ) più belli, musicale e tutto...
RispondiEliminaMi piace sin dalle prime battute, con la manovra di avvicinamento all'unica luce calda della grigia mattina domenicale del grigio quartiere e poi l'animazione degli oggetti ( il cucchiaino, la caffettiera... ) e il progressivo affievolirsi dei suoni di Loffante e delle sue illusioni. Magistrale il finale. CLAP, CLAP.
p.s.
Davvero calzante l'espressione usata da Vincenzo
per descrivere i protagonisti dei tuoi racconti umoristici : "sugheri galleggianti su mari tempestosi."
* Enzo
RispondiEliminaGrazie per le tue bellissime (e divertenti) parole.
No, il racconto finisce così, forse è uno di quelli che Cechov (mi si perdoni se scomodo un nome così grande) avrebbe definito "senza trama e senza finale"...
Ma chissà, forse un giorno potrei scrivere un romanzo sul basket...
* Karma Police
secondo me si vendicherà in qualche modo, ma senza dire nulla: ciò che gli ha rivelato la moglie è troppo imbarazzante, per lui...
* Ser Vlad
No, non trascurarmi, ché qui sei sempre graditissimo!
* robydick
In certi giorni i nostri blog paiono sincronizzati: da te il burbero Matthau, da me... :)
* Adriano
Grazie. Adesso metto su la moka, così ce ne beviamo uno insieme...
* Paolo
Be', mi limito a dire che il piacere è reciproco, perché è la pura verità!
Un abbraccio
* mr.Hyde
I primissimi disegni sembrano proprio l'illustrazione dell'inizio di questo racconto...
* giacynta
Grazie, carissima.
Sì, l'immagine scelta da Enzo mi sembra geniale, e fra l'altro fa pensare alla fragilissima zattera di storie di carta di cui sono capitano... :)
Non ti stressa l'immedesimarti in tutte queste persone?
RispondiEliminaBello, molto bello, il racconto.
Cristiana
Non pisciava più ma scorreggiava ancora.
RispondiEliminaMi hai fatto piangere dal ridere.
Grazie ci voleva.
Paolo
Mi è piaciuta la scelta di raccontare questa parte della storia, in fondo il macello successivo è prevedibile, ed è più interessante lasciare spazio all'immaginazione individuale...
RispondiEliminaLa fine mi ha ricordato un pochettino la fine di "Hai baciato Lilly" di Bukowski - almeno, credo si intitolasse così, sono passati millenni da quando ho letto quel racconto, se ho sbagliato resetta tutto!
Molto bello comunque, l'ho letto proprio volentieri!!
ciaooooooo :O
Chiaramente il bello di questi tuoi racconti è che sembra di essere lì e di vedere i protagonisti e di sentire aromi e puzzette.:D
RispondiEliminaBravissimo!
:)
Che magnifica conclusione!!! :D Il ruolo dell'"infiltrata", volente o per caso, si rivela alla fine sempre più scomodo di quanto si possa immaginare. Se ne traggono insinuazioni maligne e gratuite, che non avremmo mai voluto ascoltare, soprattutto per l'imbarazzo causato dal dover scegliere se riferirle per onestà o tacerle per quieto vivere. Ma Petunia ha fatto la cosa giusta, lasciando al marito la possibilità di decidere... e personalmente propendo a favore di una sua sana vendetta. ;) Una lettura piacevolissima, in cui si riesce ad assaporare a pieno ogni singolo gesto dei personaggi, i quali risultano, tra l'altro, molto ben caratterizzati. E quel "fraseggio" chiamato ad essere insieme titolo, termine tecnico (nonché ironico) e modalità di articolazione dell'intero racconto... più espressivo di così! :)
RispondiEliminaAmigo Zio Scriba, já tinha saudades de te ler, magnifico!
RispondiEliminaUma boa semana para ti, um abraço
oa.s
Ciaoooooo
RispondiEliminaun "profumoso" buon inizio di settimana
Bruna
Un post che parla di basket non può che piacermi e tu lo sai fare molto bene. Negli spogliatoi succede spesso quello che riferisce Petunia a Loffante per non parlare delle lamentele di chi non va neppure in panchina e finisce in tribuna.
RispondiEliminaps. Mi è piaciuto il tuo commento al mio post odierno. Veramente.
Bentornato amico mio, compagno di una vita oserei dire, perché ormai mi pare di conoscerti da sempre! E bentornato veramente alla grande, con uno dei più bei ziopezzi che abbia mai letto finora! Lo sapevi vecchio marpione che questo pezzo mi sarebbe piaciuto parecchio! Che in questo pezzo trovo tante cose che ho passato, le prese in giro che avevo da bambino, qualche panchina forzata da ragazzo, il riscatto degli anni d'oro, la seconda divisione dei 40 anni...anche se a 50 non alleno e non esercito participi presenti :-)
RispondiEliminaFin dall'inizio, non so perché, ho tifato per il "tuo" allenatore, ho sorriso con lui quando si è preso la sua piccola rivincita "ostentando" la sua moglie ventiseienne (che secondo me deve amare davvero tanto), ho sofferto con lui quando sua moglie snocciolava una dietro l'altra le osservazioni dei ragazzi!
Io ho odiato parecchio quando i miei allenatori ci ammazzavano in allenamento, quando ci facevano fare il "suicidio" finale senza pietà...ma stavolta...stavolta i ragazzi devono stramazzare a terra martedì! Questo è un impegno che ti affido, caro zio!
Ti voglio molto bene Nick, un abbraccio forte, a presto
Far finire un racconto così -tenendo i lettori col fiato sospeso e costringerli poi a buttar fuori una zaffata di aglio e resti di dentifricio- è maledettamente difficile. Ci ho provato spesso, ma qualche volta il bisogno di postillare e chiarire mi fregava; allora buttavo via tutto. Siamo un po' tutti postillodipendenti.
RispondiEliminaBellissimo farlo finire così, Nik.
Finale irriverente ma molto significativo!
RispondiEliminaTutto a posto con la connessione?
Un abbraccio Nick
grazie Zio Ottimo!
RispondiElimina* cristiana2011
RispondiEliminaDirei il contrario: è il mio antistress e antidepressivo... :D
Un abbraccio, carissima!
* Paolo
Far piangere dal ridere un amico è una delle cose che mi rendono più felice...
Grazie a te!
* Giada
Grazie per le sempre belle parole. Ti dirò che nei racconti, anche come lettore, amo tantissimo i finali aperti, mentre nei romanzi e nei film un po' meno.
* Stefy
La scrittura è una magia che ti porta a far vedere, con le parole, i colori. Se poi si sentono anche gli odori... :D
* Refuge
Siamo in piena sintonia! Sulle prime avevo quasi il dubbio che un finale simile fosse un dispetto del mio folletto demente e birichino, mentre in realtà, ricollegandosi al titolo, aggiunge ironia e forse persino drammaticità, insinuando il sospetto che il vero "fraseggio" di una simile coppia di maritino e mogliettina (quello che il loro mondo ha da dire al mondo) siano in fondo proprio i solfeggi rettali... :-))))
* OceanoAzul
RispondiEliminaQuesto nostro dialogare ognuno nella sua lingua, simile a quello dei bambini che si capiscono al volo senza bisogno di interpreti, è uno dei più bei regali che il mondo dei blog mi abbia fatto!
Un abbraccio grande!
* Bruna
Ciao! Avevo perso le tue tracce, perché visitavo un solo blog tuo, quello rimasto fermo da un po'... adesso ho scoperto l'altro, e ho posto rimedio aggiungendolo al blog roll.
* il monticiano
Piacere reciproco, carissimo amico!
* nico
Amico mio, ricambio l'abbraccio, e ti ringrazio per la bellissima definizione di "ziopezzi"... :D
Cavolo, i famosi suicidi! Dopo tutti quelli che mi sono sorbito in palestra, non fosse stato per te me li sarei dimenticati! Probabilmente Loffante ha in mente proprio quelli, per il successivo martedì sera...
* Enzo
Sì, come ho detto a Giada, soprattutto nei racconti brevi il lasciare qualcosa in sospeso, o il troncarli di netto, può rivelarsi un'ottima soluzione, anche se non esistono (per fortuna!) ricette universali.
* I am
Sembrerebbe finalmente tutto a posto. Per la qual cosa voglio ringraziare pubblicamente il mio magico amico Tito, che mi ha risolto tutti i problemi.
Un abbraccio!
* Ernest
Ciao grandissimo! :)
...questo racconto e i suoi personaggi si VEDONO davvero! Good job! :)))
RispondiEliminaGran bel racconto! Beato te che non hai crisi da pagina bianca :'(
RispondiEliminaCiao Niiiiiiiiiiiiiiiiick! :D ahahahahha mi ci voleva questa lettura... ti giuro che "non pisciava più ma scorreggiava ancora" mi ha piegato in due dal ridere! XD XD riesci a descrivere certe cose così naturali in un modo talmente divertente da farmi dimenticare qualsiasi cosa mentre ti leggo!!! :D bellissimo racconto!!!! e il finale??? non poteva essere meglio di così!!!!
RispondiElimina!Scribata di un vero fuori classe!
RispondiElimina* Reverend Emi
RispondiEliminaBellissimo e incoraggiante complimento, questo. Siccome adoro tutte le forme d'Arte, ma so soltanto scrivere, la mia aspirazione è riuscire a usare le parole per dipingere, per scolpire e modellare, per comporre musica... E ogni tanto far sentire anche qualche puzzetta! :D
* Sara
In effetti per avere delle pagine bianche le dovrei verniciare, o lasciare le risme sigillate... Ma non ti preoccupare, vedrai che l'ispirazione tornerà pure a te, quando meno te l'aspetti... :)
* Giulia
Se qualche essere umano (e a maggior ragione una cara amica come te) riesce a dimenticare tutto il resto mentre mi legge, allora per me vuol dire che non sono venuto al mondo invano, e che me ne andrò lasciando qualcosa. Grazie!
* LeNny
Grazie anche a te, carissimo. Checché ne dica chi ne riceve troppi (o non ne riceve mai...) i complimenti fanno bene, eccome!
Un abbraccio.
Vero, concordo con gli altri: in questo racconto pare proprio di 'sentire' il tutto. :D
RispondiEliminaChe dire di più?! Grande come sempre, Zio!
Abbraccio! ;)
vedo che la moglie e l'allenatore hanno diverse cose in comune uno sopratutto il "peto" facile.... per il resto un bel racconto, complimenti.
RispondiEliminaOgni volta mi sembra d'esser presente… e in questo caso specifico non è che convenisse tanto… se non fosse per il caffè! :) *
RispondiEliminaBella scrittura con descrizioni accurate e precise. Chissà come si sono conosciuti Loffante e Petunia.
RispondiEliminaper VENTURIK
RispondiEliminaVisto che sul grandioso blog Asocial Network (uno dei migliori in circolazione) non si può commentare, ho deciso in barba alle regole di mettere qui il mio commento al tuo post sul salvataggio del gattino nero Néstor Lunar: che gli dèi (quelli greci, quelli egizi, o quelli miei personali e immaginari) ti benedicano, ti ricompensino e ti proteggano. Sei una persona rara e meravigliosa!
(e che gli stessi dèi inculino a dovere la brava personcina che quel micino aveva abbandonato a una morte brutta e certa)
volevo dirtelo e l'ho detto
* Vince Symo
RispondiEliminaGrazie come sempre, caro amico. Ti abbraccio anch'io. :)
* @enio
Grazie di cuore anche a te, sia per la visita che per il gradimento.
* petrolio
Sperando che l'aroma del caffè abbia la meglio sugli altri... :-)
* Alberto
Colpo di fulmine? (nel senso del tuono?)
Odore a prima vista? :D
Certo non sarò tanto originale, ma voglio dirti anch'io che i tuoi personaggi sono così vivi, veri, sembrano davvero in carne e ossa. Mi è piaciuto molto quell'alternarsi della descrizione di Loffante con quella dei suoi riti mattutini: il caffè, il giornale... Anche il personaggio della moglie, leggermente perfida, è molto interessante. E alla fine anche se ci si chiede "cosa succederà con i ragazzi?", è anche bello che il racconto venga troncato lì, ironicamente. Ciao!
RispondiElimina* Ninfa
RispondiEliminaSempre graditissima la tua visita, amica mia. Ciao! :D
Mi sono preso il tempo per leggerlo, sgranocchiando un ghiacciolo al limon e leggendolo mi sono immaginato Walter Matthau ad interpretarlo, nonostante il peso e i capelli siano diversi. Un personaggio alla Matthau, mentre lei, decisamente la Melato.
RispondiElimina* Ally
RispondiEliminaDavvero ottimo il tuo casting: peccato solo che l'immenso Walter non ci sia più...