"Meglio Capitano della mia zattera di storie di carta che mozzo sul ponte di Achab"

SITO ANTI COPROFAGIA LETTERARIA: MERDA NON NE SCRIVO, E MENO ANCORA NE LEGGO

venerdì 22 ottobre 2010

Assaggi di romanzo (5)


da il taccuino rosso di wolfsburg
parte iniziale del capitolo 17



A luglio la frescura della chiesa era più ristoratrice di un ghiacciolo alla menta comprato all’Hostaria dei Cacciatori lì in piazza, e il primo sgocciolio d’acquasantiera sui polpastrelli e sulla fronte (il Padre) pareva scaturir da viscere di rocca di montagna.
La visita alle tombe era sfumata, per oggi. Le incombenze spalerecce avevano tenuto Gianni inchiodato alla fattoria per tutta la mattina e il primo pomeriggio, e alle sei eravamo di turno come chirichetti per servir messa alla vespertina delle vecchie, che si sarebbe prolungata oltre la chiusura del camposanto. Le cui muraglie impervie lo rendevano ben più impenetrabile di Villa K.

(...)

La chiesa parrocchiale dedicata a San Rocco, ricca di affreschi e decorazioni, era sproporzionata per Cuviago come lo sarebbe una cattedrale gotica a Lavinia. Io tutte le volte che entravo non potevo evitare di commettere peccato ripensando alla barzelletta sacrilega dello zio Renzo al matrimonio piemontese. Era la storia di uno che inciampava in chiesa, e non volendo bestemmiare si sfogava rivolgendosi ai romani nel quadro della via crucis:
“Forza fiòj! Inciodélo!”
Ma oggi, se chiudo gli occhi e penso “chiesa”, la prima cosa che mi viene in mente è don Gioele con la sua bellissima voce da baritono, e un brivido sconquassante mi percorre ora come allora da capo a piedi nel risentirlo cantare, fremendo di commozione e quasi tremando, quella strana, lunga, disperata parola: “Geementesefleeentes…” che sta nel cuor cuore del Salve Regina. Ero e sono sicuro che in quei frangenti, su quegli acuti, lui ci facesse l’amore, con la sua Regina. Ascoltandolo e guardandolo intuivo che l’amore puro era qualcosa che poteva esistere veramente, che gli angeli asessuati non erano degli esseri con qualcosa di meno, ma con qualcosa di più. Però gli ignorantoni del paese queste cose non potevano capirle, e spettegolavano che don Gioele si scopava (che schifo) la De Ropp.
La De Ropp vista da noi non era una donna, ma un’istituzione come il catechismo, l’acquedotto, il passaggio a livello. Non era roba che si potesse scopare.

Arrivammo appena in tempo. In chiesa c’erano già tutte e cinque le vecchie, che ci guardarono malissimo – eravamo ansanti e zuppi di sudore, e con l’acquasanta per la fretta invece del segno della croce bel completo avevamo finito col mimare spennellamenti a carciofo sulle fronti. Don Gioele era già in sagrestia che ci aspettava, in compagnia del Norino che lo aiutava nella vestizione. Il vecchio Norino era un personaggio dell’Italia in miniatura: piccolo, pelatino, coi baffettini da un po’ avvizzito Charlot, omino piissimo, origliava le messe dalla galleria che metteva in comunicazione sagrestia e altar maggiore, e sbucava fuori solo per ricevere l’ostia, come un topino timido attirato dal formaggio. Mai lo sentii pronunciar parola che non fosse l’impercettibile “Prosit” che sbiascicava addosso a don Gioele a fine celebrazione. Per il resto sembrava muto: se doveva redarguire noi chirichetti per il nostro arrivare chiassoso, si limitava a guardarci male e a mettere l’indice in miniatura davanti alle labbra in miniatura. Per mesi lo credetti una creatura dedita a null’altro che alla sagrestia, dove pensavo vivesse e dormisse dentro qualche custodia o tabernacolo, e fui molto sorpreso quando venni a sapere che il buon Norino Prosit era nonno: il nonno materno del terrificante bullo Pierfranchino Azzalonna.

venerdì 8 ottobre 2010

ANTROPOMETRIA - Il meritato esordio di Paolo Zardi


Oggi voglio concedermi una recensione come quelle che scriveva Bukowski: semplice e immediata, forse un poco ingenua, ma fatta con quel genuino, sincero entusiasmo che dovrebbe essere il succo di tutte le recensioni che abbiano lo scopo di mettersi al servizio dei lettori e della scrittura, e non di mettere in mostra la bravura del recensore.

E allora semplicemente vi dico, consiglio, ordino: leggete il bel libro d’esordio (l’atteso e promettente esordio) di Paolo Zardi intitolato Antropometria e appena pubblicato dalla Neo Edizioni (pagg 176, € 13), una giovane e appassionata casa editrice che oltre a fare libri originali e coraggiosi ha pure la prerogativa non da poco di fare bellissime copertine. Inutile dire che la Neo è piccola ma onesta: fossero imbroglioncelli a pagamento non ne parlerei. Siete ancora lì indecisi? Non fatemi incazzare.

Dopo tanto mio scrivere (giustamente) male di tutta quella schifosa feccia raccomandata o ben maritata che non merita un cazzo ma che a mafiopoli spopola, lasciatemi la soddisfazione di dirlo: Paolo Zardi è uno che ha talento, è uno senza peli (di nessuno!) sulla lingua, e merita che i miei amici divengano suoi lettori, e i miei lettori divengano suoi amici. I suoi racconti grondano umanità e vita vera. Ma non è la squallida, banale, deludente, rasoterra docufiction degli scrittori-magnetofono che vanno oggi tanto di moda: è la vita vera narrata da un vero artista. Ché la Narrativa è ancora un’Arte, checché ne pensino certi lobotomizzati editoriali e i loro spastici scolaretti.

Questi suoi racconti, ne sono sicuro, vi daranno qualcosa. Vi daranno molto. Se non vi dessero nulla, ci sarò qua io a rimborsarvi il prezzo del libro. Non lui: io.

Parola di Scriba.